Giorni di Storia

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Messina 1908. Con il terremoto crolla la città e la sua identità

di Antonio Baglio*

Antonio Baglio

In una suggestiva pagina del suo romanzo A occhi bassi, lo scrittore tunisino Tahar Ben Jelloun, a proposito della perdita dell’identità innescata dal terremoto che distrusse Agadir nel 1961, faceva riferimento ai cosiddetti “venditori di vento”, dediti al “piccolo commercio della memoria”, che si erano ritagliati il compito di “inventare, confezionare e vendere” ricordi agli spauriti e immemori sopravvissuti, ai loro discendenti e ai nuovi abitanti del paese.

L’accostamento alla drammatica vicenda vissuta da Messina in conseguenza del disastroso sisma che il 28 dicembre 1908 la rase al suolo, suggerito dalla prof.ssa Michela D’Angelo nell’introduzione al volume Messina dalla vigilia del terremoto del 1908 all’avvio della ricostruzione, edito dall’Istituto Salvemini di Messina, non appare affatto peregrina. Il peggio è che, accanto ai “venditori di vento”, non sono mancati – come sottolinea la docente messinese – i “venditori di fumo”, responsabili «forse molto di più delle forze della natura e delle devastazioni del 1908» di aver ridotto la città nell’ultimo secolo a un luogo «senza più identità e senza più anima».

Per Messina, alle prese già all’epoca con un ridimensionamento del proprio ruolo nei traffici internazionali ma ancora operosa e non priva di fermenti positivi, il terremoto del 1908, con il suo carico di morti e distruzioni (60/65 mila vittime nel solo capoluogo), ha rappresentato una cesura “epocale”, sconvolgendo profondamente il tessuto urbano, le attività economiche prevalenti e, in termini generali, la sua stessa identità. Da quel momento in poi si sarebbe assistito ad una vera e propria mutazione “genetica” della città che, abbandonando il suo tradizionale ruolo marittimo e commerciale, avrebbe acquisito progressivamente la fisionomia di centro burocratico-militare, con prevalenza dell’attività edilizia e del terziario improduttivo, sempre più dipendente dai flussi finanziari provenienti dal governo centrale, gestiti con l’intermediazione dei politici locali.

Inoltre l’evento sismico ha finito pure per rappresentare un elemento di forte discontinuità sia sul versante della composizione sociale che della memoria storica. Se la città era destinata a ripopolarsi in tempi rapidi grazie a flussi di popolazione provenienti da fuori, attratti dalle nuove possibilità offerte dai lavori pubblici e dall’ampliamento dei servizi, tale processo sarebbe avvenuto all’insegna di una “rescissione” dei legami con la storia cittadina precedente e la sua specifica vocazione. A ciò si aggiunse l’estrema problematicità  per i sopravvissuti di elaborare l’accaduto e la volontà evidente in chi operò le scelte urbanistiche di tagliare i ponti con il passato, abbattendo molte delle vestigia che la furia del terremoto non era riuscita a sconquassare. Ne scaturì un “deficit identitario” che ancora oggi si trascina, consistente nella difficoltà di recuperare gli elementi fondativi della propria identità, il proprio passato, e di consegnare alle generazioni successive la memoria e la storia stessa della città.

La ricostruzione della città sarebbe proceduta a rilento, tra emergenze e affanni, nonostante il pronto stanziamento di fondi da parte del governo e l’adozione di un piano regolatore, messo a punto dall’ing. Luigi Borzì, allora direttore dell’Ufficio tecnico comunale. Dapprima la guerra di Libia, del 1911-12, poi la deflagrazione della Grande Guerra avrebbero canalizzato gli sforzi del paese, dirottando nelle imprese belliche talune risorse destinate inizialmente alla rinascita del centro peloritano. Solo nel periodo fascista, in forza dell’investimento ideologico e politico compiuto da Mussolini per scardinare le leve tradizionali del potere locale e puntare sulla ricostruzione come mezzo per accrescere il proprio consenso, si sarebbe assistito ad un più deciso impulso nei programmi di lavori pubblici, sostenuti da una accelerazione degli stanziamenti statali. In definitiva, negli anni Venti la città si avviava ad assumere quella fisionomia che l’avrebbe caratterizzata nei decenni successivi, con una trama urbana ordinata per quanto riguarda la zona centrale e le periferie ampliatesi a dismisura, carenti di infrastrutture e servizi. Venuto meno, traumaticamente, il suo antico ruolo di centro marittimo, finanziario e commerciale di primo piano, punto di riferimento di una vasta area gravitante tra l’entroterra siciliano e la Calabria, Messina diventava una città legata ai servizi del terziario, snodo ferroviario per merci e passeggeri in transito da e verso il continente, con una larga predominanza dell’iniziativa statale su quella privata. La “seconda ricostruzione”, seguita ai terribili bombardamenti aerei nel corso della seconda guerra mondiale, non avrebbe modificato tale impostazione.

Resta emblematica, come metafora della città prima e dopo il sisma del 1908 e del successivo rapporto dei messinesi con il mare, la rotazione della statua del Nettuno che, a partire dal ’500, dominava la fontana realizzata da Giovanni Angelo Montorsoli. Dapprima collocata nella cortina porto, davanti al Municipio, con le spalle rivolte al mare, “quasi per unire il mare alla città”, dopo il 1908 il trasferimento davanti alla Prefettura in posizione rovesciata, con il braccio rivolto verso il mare, come nell’atto di esercitare un comando per placare la furia delle onde, ha suscitato l’effetto di “allontanare il mare dalla città” (D’Angelo).

*Docente di Storia Contemporanea all’Università di Messina