Giorni di Storia

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Bartolomé Mitre, il Presidente argentino che amò il sommo poeta

Il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, celebratosi in tutto il mondo lo scorso 14 settembre ci ha dato modo di ricordare, ancora una volta, come la sua opera massima, la celebre “Divina Commedia”, sia stata, è e sarà una pietra miliare, se non addirittura fondante sia della letteratura occidentale, che di quella del mondo intero. Nel corso dei mesi scorsi abbiamo assisto a molte cerimonie, varie conferenze e a innumerevoli dibattiti, nel corso dei quali il “Sommo Poeta” è stato scrutato nei suoi molteplici aspetti e nelle sue varie angolazioni. Un particolare poco noto, almeno qui in Italia, riguardo alla letteratura dantesca è quello relativo alla sua conoscenza e diffusione in Argentina e, quindi, nel resto dell’America Latina, operazione per la quale bisogna ringraziare l’ex Presidente della stessa Argentina, il Generale Bartolomé Mitre, un grande statista del quale, per uno strano caso del destino, si ricorda quest’anno il bicentenario della nascita, avendo egli visto la luce in Buenos Aires il 26 giugno del 1821. Ebbene fu proprio del Mitre, già capo degli eserciti alleati nella Guerra della Triplice Alleanza (1865-1870), storico, bibliofilo, giornalista e scrittore di grande intelletto, il merito della prima importante traduzione della “Divina Commedia” in Argentina, Paese che proprio in quel frangente storico aveva rafforzato il legame con la considerevole comunità italiana che vi era giunta in veste di emigrante già da diversi decenni. Come ho già ricordato nei mesi scorsi, in un saggio a lui dedicato e pubblicato sul portale storico “Giorni di Storia”, Bartolomé Mitre fu sia un soldato che un poeta e giornalista di elevato spessore. Entrato giovanissimo – aveva appena 15 anni – nella Scuola Militare di Montevideo, ove si era trasferito con la famiglia, si unì presto alle truppe che difendevano il capoluogo Uruguayano dall’assedio dell’esercito argentino del Generale Manuel Oribe. E fu già allora che il Mitre iniziò ad avvicinarsi alla lingua italiana, grazie all’amicizia con Giuseppe Garibaldi e soprattutto a quella del patriota Giovan Battista Cuneo, il quale ne divenne persino insegnante. Riguardo a tali primordi ci appoggiamo alla penna del celebre Esteban Echeverría, uno fra i più grandi poeti e scrittori argentini, fra i massimi esponenti del Romanticismo che coinvolse il Continente Latinoamericano, il quale, nel 1846, ebbe a caratterizzare il nostro personaggio con la seguente frase: «Il signor Mitre, artigliere scientifico e soldato a Cagancha nel sito di Montevideo, ha avuto, sebbene molto giovane, parecchi titoli come pensatore e poeta». Gran parte dei biografi del Presidente Mitre sono concordi coll’affermare che il suo interesse per la traduzione della “Divina Comedia” risalirebbe al 1848, epoca nella quale lo troviamo esiliato in Bolivia. Qui egli compose un’opera poetico-archeologica sulle rovine di Tiahuanaco, composizione che in seguito gli avrebbe valso il titolo di accademico del “Collegio di Arcadia” in Roma. Onde ricambiare l’alto onore ricevuto dall’Italia, il condottiero argentino decise di cimentarsi per l’appunto nella traduzione del poema Dantesco, purtroppo allora ancora poco conosciuto in Argentina. Bartolomé Mitre, membro della borghesia porteña, quindi dotato di elevata cultura, aveva conosciuto Dante sin da quando aveva 17 anni, epoca nella quale, dismessa l’uniforme, aveva avuto modo di lavorare nella redazione di un giornale di Montevideo, sotto la direzione di Florencio Varela senior, un giornalista e rivoluzionario argentino amico di molti esuli italiani. E fu proprio grazie ai fuoriusciti italiani che il giovane Mitre imparò a conoscere anche la letteratura del nostro meraviglioso Paese, innamorandosene follemente. Nel 1854, sotto il titolo di “Rhymes”, il Mitre pubblicò il suo primo volume di poesie, mentre per la traduzione della “Divina Commedia” bisognerà attendere gli anni che seguirono la sua Presidenza (1862-1868). La traduzione dantesca apparve per la prima volta nel 1889 sul quotidiano “La Nación”, il giornale da lui stesso fondato e diretto sin dal 1870, in una tiratura di 100 copie. Si trattava dei primi cantici dell’Inferno. Essa fu realizzata sul testo originale in italiano tardomedievale, idioma che si parlava in Italia tra la fine del XIII e il XIV secolo.

La sede della “Dante Alighieri” a Buenos Aires

A tal fine, onde renderla molto più vicina alla realtà storica, il Mitre annunciò nel prologo che avrebbe usato la lingua spagnola del Trecento, ritenendola la più vicina all’italiano Dantesco. Per uno strano caso del destino, i primi brani tradotti in castigliano apparvero nel corso dello stesso anno nel quale, a Roma, veniva fondata, per merito di un gruppo di intellettuali guidati da Giosue Carducci la “Società Dante Alighieri”, in seguito eretta in Ente Morale con R. Decreto del 18 luglio 1893, n. 347, che aveva ed ha tuttora lo scopo di: «tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiane nel mondo, ravvivando i legami spirituali dei connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana». La traduzione dell’intera fatica Dantesca viene definita dai critici letterari come un’opera di “scrittura in movimento”, avendo registrato edizioni successive tra il 1891 e il 1897: edizioni nelle quali l’autore non mancò di apportare non poche correzioni alla traduzione iniziale. Il 1897 fu, quindi, l’anno dell’edizione definitiva, la quale comprendeva un prologo intitolato “Teoria del Traduttore”. In esso l’ex Presidente della Repubblica Argentina sostenne, forse con una malcelata magniloquenza, che: «questa epopea, la più sublime dell’era cristiana, fu pensata e scritta in un dialetto grossolano, che sgorgava come una nuvolosa sorgente dal flusso cristallino del latino, al pari di francese e spagnolo e delle altre lingue romanze che poi sono diventate fiumi». Oltre al quotidiano “La Nación” altro importantissimo veicolo per una maggiore diffusione dell’opera Dantesca in Argentina, sebbene rigorosamente nella sua versione italiana, fu rappresentato dalla neonata Sezione di Buenos Aires della citata “Società Dante Alighieri”, fondata il 19 settembre 1896 da un gruppo di residenti italiani, presieduti dal Dott. Attilio Boraschi. Erano, quelli, tempi in cui le Associazioni italiane a Buenos Aires erano numerose e, quasi tutte sorte con finalità di mutuo soccorso e ricreazione.

L’edizione del 1894

La “Dante Alighieri”, invece, ebbe fin dall’inizio l’obiettivo di mantenere vivo nella comunità il sentimento dell’italianità favorendo i legami di amicizia tra Italia e Argentina. Tornando al tema della conferenza è necessario ricordare come l’opera di traduzione eseguita dal Mitre non piacque a tutti, sia in Argentina che nella stessa Italia, ove ricevette critiche sia da Gabriele D’Annunzio che dalla regina Margherita di Savoia, quest’ultima quasi certamente ispirata dal Carducci, i quali non gradirono il ricorso al castigliano antico, che conferiva all’operazione letteraria in sé una tonalità linguistica vagamente arcaicizzante, con vocaboli e modi alquanto antiquati. A rendere, invece, giustizia al Generale Mitre è stato, molti anni dopo, lo storico Enrique De Gandía, il quale sostenne che la traduzione del Mitre aveva suscitato grande ammirazione in Argentina, in America e anche in Italia.

Il Generale Bartolomé Mitre

Il Generale Mitre, dopo un viaggio in Europa, ove ricevette peraltro accoglienze trionfali sia in Italia, Francia che Spagna, tornò a Buenos Aires con la voglia di dedicarsi nuovamente alla letteratura. Pur non rinunciando alla politica, tanto da tentare nuovamente la corsa alla Presidenza della Repubblica nel 1891, contesa dalla quale si ritirò subito dopo, abbracciò di nuovo la passione per il giornalismo, per la storia e per la poesia.
Ebbene, accanto alla sua produzione storiografica, certamente la più importante, come ho ricordato nel citato saggio pubblicato su “Giorni di Storia”, Bartolomé Mitre si dedicò con passione agli studi linguistici e alle traduzioni poetiche, cimentandosi con successo anche su testi in francese e inglese. Certamente l’opera più importante fu proprio la traduzione della “Divin Commedia”, nella quale si era cimentato sino ad allora il solo Juan Manuel González de la Pezuela y Ceballos, primo Conte di Cheste, un nobile spagnolo con la passione per la poesia e la letteratura, il quale patrocinò il ritorno degli studi su Dante Alighieri in Spagna, traducendone per l’appunto il suo massimo capolavoro. Oltre ai cantici tradotti in spagnolo e pubblicati da “La Nación”, la prima edizione integrale e definitiva porta la data del 1894, seguita, nel 1897, da una seconda edizione. In quella del 1894, il Mitre avvertì i lettori che la traduzione non era da considerarsi definitiva, poiché in essa erano presenti: «[…] notables errores, así tipográficos, como de fondo y de forma, que requieren enmienda». Come ebbe giustamente a ricordare il compianto Prof. Giuseppe Bellini, uno fra i più noti studiosi della letteratura Ispano-Americana, in un suo saggio dal titolo “Dante legittimato nell’Argentina di Mitre” (in «Oltreoceano. Percorsi letterari e linguistici», n. 1/2007, pp. 79-82), l’impresa letteraria del grande Statista argentino riveste un notevole significato riguardo alla storia della presenza della letteratura italiana in America, ma anche per la storia intima dello stesso autore, tanto da costituire, se ci pensiamo bene, l’impegno più lungo della sua stessa vita. Sappiamo, infatti, come il letterato porteño si sia dedicato anima e corpo a tale impresa, sottoponendo il lavoro a numerose correzioni e ripensamenti, e ciò sempre nell’ottica maniacale di raggiungere la più fedele aderenza al testo originale, peraltro dovendo subire, come ricordavo prima, talune aspre critiche, che pur amareggiandolo fortemente non lo distolsero mai riguardo ai progetti futuri. Gli furono vicini molti amici, alcuni dei quali, italo-argentini come lo era il Dott. Osvaldo Magnasco, celebre avvocato e Ministro della Pubblica Istruzione. Furono tutti prodighi di osservazioni e consigli utili. Bartolomé Mitre continuò col suo impegno di revisione delle traduzioni Dantesche praticamente fino alla morte, avvenuta in Buenos Aires il 19 gennaio del 1906, come ebbe a riconoscere il poeta Besio Moreno, che ne curò l’edizione del 1922. Ciò denota la grande serietà con la quale egli si era sempre approcciato alla grande impresa di tradurre la “Divina Commedia”, peraltro consapevole di poter così acquisire alla cultura del suo Paese una dimensione intellettuale di ampio respiro, dimensione della quale, in effetti, si sentiva sino ad allora la mancanza. Va da sé che se l’esistenza letteraria dell’Argentina iniziava, in sostanza, con la sua stessa indipendenza dalla Spagna, mancavano, tuttavia, radici e le fondamenta nel passato, come invece potevano vantare il Messico e il Perù, Paesi animati inizialmente dalla grande civiltà precolombiana e, poi, da quella coloniale. La “Divina Commedia” finì così per costituire non solo un aggancio concreto con la civiltà Europea, legame che per molti decenni era stato ostinatamente perseguito da gran parte degli intellettuali argentini in lotta contro i vari caudillos, ma anche un fondamento solido di civiltà. Con tale operazione, insomma, si superava finalmente quel vuoto di secoli, consentendo così all’Argentina di potersi legittimamente proiettare nel mondo della cultura mondiale, riuscendo così completare quel processo di identità e di affermazione al quale aveva lavorato per anni lo stesso Mitre, grande amico del nostro popolo. L’opera letteraria del Mitre fu, quindi, utilissima onde avvalorare l’idea e la sostanza di quanto gli italiani avessero fatto per quel Paese sin dal maggio 1810, volendo ricordare l’opera di Manuel Belgrano, oriundo di Oneglia, anche lui grande Statista e ideatore della stessa Bandiera argentina.

 

 

L’inferno di Dante (edizione del 1891)

Prima di concludere ricordo che il 12 ottobre del 1933, proprio dinanzi all’ingresso principale dell’Ambasciata Argentina in Roma furono inaugurati due busti in marmo riproducenti il Belgrano e lo stesso Mitre, ritenuti evidentemente come gli argentini che più di altri hanno amato l’Italia. Concludo finalmente osservando il fatto che Dante Alighieri, il sommo poeta di quell’Italia dalla quale erano partiti, anche grazie alle leggi e all’accoglienza volute e partorire dallo stesso Mitre, con il suo poema massimo, fu definitivamente legittimato proprio dall’ex Presidente, grazie al quale fu introdotto a pieno titolo nella storia culturale del grande Paese del Sud America. Fu, forse, questa la dimostrazione più emblematica di come gli italiani e la loro cultura fossero stati considerati ormai parte integrante di quel popolo argentino, nelle cui vene evidentemente non scorreva allora, così come non scorre ancora oggi, solo sangue castigliano…

 

Ten. Col. Gerardo Severino
Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza