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27 gennaio 1945. Auschwitz-Birkenau: per non dimenticare

Al campo di concentramento di Auschwitz si accede per una porta sovrastata dalla cinica scritta «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. Da qui iniziava per i deportati il viaggio verso l’orrore, troppe volte senza ritorno. Oggi Oswiecim, l’allora Auschwitz I, e Brzezinka, quella che era Auschwitz II-Birkenau,  è tutto un museo a cielo aperto. I monumenti dell’industria della morte organizzata sono ancora qui, intatti, a testimonianza di una tragedia, di un crimine contro l’umanità intera. Qui hanno perso la vita Massimiliano Kolbe e Edith Stein. Con loro anche milioni di persone. Questa era la rete dell’industria della morte che non fece più tornare a casa donne, uomini e bambini. Quei binari che non portano a nulla sono testimoni del tempo e della storia. Anzi di storie di esseri umani, di innocenti. Imprigionati, torturati, uccisi. Ottant’anni dopo la memoria della Shoah. Per non dimenticare che questo è stato.

Dove si fermavano i treni della morte (Foto Vincenzo Grienti)

Questo luogo dal 1940 al 1945 incuteva terrore tra le popolazioni dei paesi occupati dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale. La prima cosa che viene in mente entrando per la prima volta nel campo di sterminio tedesco è il passo della Divina commedia sulla porta dell’inferno: “lasciate ogni speranza voi che entrate”. Quello che più di ogni altra cosa fa rimanere impietriti migliaia di visitatori da tutto il mondo è il modo in cui si organizzava l’orrore. C’è smarrimento e sconcerto davanti ai posti dove avveniva la smaterializzazione di migliaia di vite umane, senza nessun motivo o solo perché erano ebrei. Auschwitz-Birkenau incute gelo e desolazione, ma anche una grandissima malinconia e commozione, soprattutto visitando le baracche dove cercavano di sopravvivere i deportati, oppure quella strada ferrata senza ritorno che termina in una piazzola dove gli ufficiali e i medici delle SS separavano il destino di chi avrebbe lavorato da quello di chi era destinato alle camere a gas. Impossibile per qualunque visitatore non chiedersi: come possono gli uomini concepire una simile malvagità ai danni di altri uomini? Come hanno potuto i nazisti essere tutti convinti che questo era giusto? Uomini, donne, bambini privati della loro dignità, mutilati, bruciati, resi oggetto di una grande catena di montaggio che aveva come fase finale la cremazione dei loro corpi.

Il filo spinato elettrificato nel campo di Auschwitz-Birkenau (Foto Vincenzo Grienti)

Il ritorno con la memoria al viaggio in Polonia riporta alla mente di chi scrive le parole di una donna che aveva conosciuto Edith Stein: «La dottoressa Stein pregava molto – affermava nel 2005 Elisabeth Krämer, allieva della santa ai tempi dell’insegnamento presso l’istituto magistrale di Speyer –. La mattina, in occasione della Santa Messa, aveva un posto tutto suo nel coro della Chiesa. C’era un inginocchiatoio vicino alla porta della sagrestia: si inginocchiava lì. Ma non solo durante la Messa, anche in altri momenti veniva spesso lì per fare l’adorazione. Persino di notte si tratteneva spesso a fare l’adorazione davanti al Santissimo. Una chiave della Chiesa era a sua disposizione in un posto concordato. Le sue lezioni erano impegnative, e pretendeva molto anche da noi. Non era una semplice trasmissione di sapere: portava nell’aula con sé anche la sua profonda fede in Cristo».

Per suor Teresa Margareta Drügemüller, che era novizia quando la Stein entrò nel Carmelo di Colonia: «Teresa Benedetta era consapevole, sebbene con la massima modestia, dell’essere prescelta come figlia d’Israele. Rallegrava conoscerla così perché era completamente di Dio e allo stesso tempo figlia del popolo eletto di Dio. Era ebrea, ma sottolineava sempre, “ebrea tedesca”, così come amava definirsi la sua famiglia. Questa consapevolezza conferiva a suor Teresa Benedetta un grande carisma». Edith Stein, figlia del popolo di Israele ed ebrea tedesca, era nata nel giorno dello Jom Kippur, dell’espiazione e del perdono del popolo di Dio. «Questa grande donna – prosegue suor Teresia Margareta Drügemüller – potrebbe essere il punto di riconciliazione tra ebrei e cristiani, perché entrambi riconoscano congiuntamente di essere figli di un unico Padre celeste, e di vivere del Suo amore e della Sua benedizione».

Nei luoghi dell’orrore per non dimenticare (Foto Vincenzo Grienti)

Nel KL di Auschwitz-Birkenau

In tutto il mondo, Auschwitz è diventato un simbolo di terrore, genocidio e Olocausto. Fu fondato dai tedeschi nel 1940, nella periferia di Oswiecim, una città polacca che fu annessa al Terzo Reich dai nazisti. Il suo nome fu cambiato in Auschwitz, che divenne anche il nome di Konzentrationslager Auschwitz. (clicca qui per visitare il sito internet del Museo)

La ragione diretta per la fondazione del campo fu il fatto che gli arresti di massa dei polacchi stavano aumentando oltre la capacità delle prigioni “locali” esistenti. Il primo trasporto di polacchi raggiunse KL Auschwitz dalla prigione di Tarnów il 14 giugno 1940. Inizialmente, Auschwitz doveva essere un altro campo di concentramento del tipo che i nazisti avevano istituito fin dall’inizio degli anni ’30. Svolse questo ruolo per tutta la sua esistenza, anche quando, a partire dal 1942, divenne anche il più grande dei centri di sterminio in cui fu attuata la “Endlösung der Judenfrage” (la soluzione finale alla questione ebraica, il piano nazista di assassinare gli ebrei europei).

Divisione del campo

Auschwitz I. Il primo e più antico fu il cosiddetto “campo principale”, in seguito noto anche come “Auschwitz I” (il numero di prigionieri oscillò intorno ai 15.000, a volte superando i 20.000), che fu istituito sui terreni e negli edifici delle baracche polacche prebelliche;

Auschwitz II. La seconda parte era il campo di Birkenau (che ospitava oltre 90.000 prigionieri nel 1944), noto anche come “Auschwitz II”. Questa era la parte più grande del complesso di Auschwitz. I nazisti iniziarono a costruirlo nel 1941 sul sito del villaggio di Brzezinka, a tre chilometri da Oswiecim. La popolazione civile polacca fu sfrattata e le loro case confiscate e demolite. La maggior parte dell’apparato di sterminio di massa fu costruito a Birkenau e la maggior parte delle vittime fu assassinata qui;

Auschwitz III. Tra il 1942 e il 1944 furono fondati più di 40 sottocampi, sfruttando i prigionieri come schiavi, principalmente in vari tipi di stabilimenti industriali e fattorie tedesche. Il più grande di questi si chiamava Buna (Monowitz, con diecimila prigionieri) e fu aperto dall’amministrazione del campo nel 1942 sui terreni dell’impianto di gomma sintetica e carburante Buna-Werke a sei chilometri dal campo di Auschwitz. Il piano fu costruito durante la guerra dalla società tedesca IG Farbenindustrie, alla quale le SS fornivano prigionieri per lavorare. Nel novembre 1943, il sottocampo di Buna divenne la sede del comandante di Auschwitz III, al quale erano subordinati altri sottocampi industriali di Auschwitz.

Aushwitz-Birkenau. Le baracche dei deportati (Foto Vincenzo Grienti)

I tedeschi isolarono tutti i campi e i sottocampi dal mondo esterno e li circondarono con una recinzione di filo spinato. Ogni contatto con il mondo esterno era proibito. Tuttavia, l’area amministrata dal comandante e pattugliata dalla guarnigione del campo delle SS andava oltre i terreni recintati dal filo spinato. Comprendeva un’area aggiuntiva di circa 40 chilometri quadrati (la cosiddetta “Interessengebiet” – la zona di interesse), che si estendeva intorno ai campi di Auschwitz I e Auschwitz II-Birkenau.

La popolazione locale, i polacchi e gli ebrei che vivevano vicino al campo di recente fondazione, furono sfrattati nel 1940-1941. Circa mille delle loro case furono demolite. Altri edifici furono assegnati a ufficiali e sottufficiali della guarnigione SS del campo, che a volte venivano qui con le loro famiglie intere. Le strutture industriali prebelliche nella zona, rilevate dai tedeschi, furono in alcuni casi ampliate e, in altri, demolite per far posto a nuovi impianti associati alle esigenze militari del Terzo Reich. L’amministrazione del campo utilizzò la zona attorno al campo per il supporto tecnico ausiliario del campo, officine, magazzini, uffici e baracche per le SS.

Il Rapporto W e l’attività dell’ufficiale Pilecki

Una storia quella del campo di Auschwitz che si intreccia con la vita e con l’attività di intelligence dell’ufficio polacco Witold Pilecki.  Infiltrato ad Auschwitz I, ad Oswiecim, per creare una rete clandestina di resistenza all’interno del campo nazista e raccogliere informazioni preziose da trasmettere agli Alleati. Una missione a dir poco suicida quella intrapresa dal sottotenente dell’esercito polacco Witold Pilecki, classe 1901 e originario di Olonet, in Carelia, al confine con la Finlandia, ma all’epoca sotto il dominio russo.

L’ufficiale di cavalleria, ottenuto l’avallo dei suoi superiori, il 19 settembre 1940 durante un rastrellamento della Gestapo a Zoliborz, a nord di Varsavia, si fece arrestare con il nome di Tomasz Serafinski. L’obiettivo era quello di effettuare una vera e propria operazione di intelligence mirata non solo a risollevare il morale dei prigionieri per la maggior parte ebrei, ma a far nascere una rete strutturata di persone che avrebbero potuto organizzare una rivolta armata dall’interno del campo per ottenerne il controllo anche nell’eventualità di aiuti dall’esterno.

Witold Pilecki

Una possibilità, quest’ultima, che non si verificò mai nonostante la convinzione di Pilecki, promosso tenente mentre si trovava ad Auschwitz, di essere in grado con i suoi uomini di impadronirsi del lager. L’agente sotto copertura giunse all’interno dello Stammlager nella notte tra il 21 e il 22 settembre e avviò subito la Zow (Zwiazek Organizacji Wojskowych), organizzazione segreta articolata in gruppi di cellule che l’ufficiale chiamava “cinquine” e operanti indipendentemente l’una dall’altra. Una struttura disegnata così per scongiurare tradimenti in caso di cattura e di tortura da parte dei tedeschi. Pilecki, cattolico praticante e uomo di fede, non era nuovo ad attività resistenziali sin dall’occupazione della Polonia del settembre 1939 a opera dei soldati della Wehrmacht. Infatti con altri ufficiali aveva preso parte alla costituzione di una formazione clandestina chiamata Tajna Armia Polska (Tap), un vero e proprio esercito segreto polacco impegnato a contrastare le forze di invasione naziste. Niente a confronto con l’operazione di infiltrazione ad Auschwitz che portò Pilecki a stilare ben tre rapporti sulle atrocità e le ingiustizie che ogni giorno avvenivano dentro la fabbrica della morte gestita dalle SS di Adolf Hitler. Il militare era consapevole che la sua impresa era al limite delle possibilità, ma occorreva portarla a termine. Lo fece con coraggio già nell’ottobre del 1940, un mese dopo il suo internamento.

Attraverso un detenuto liberato riuscì a far filtrare il suo primo rapporto all’esterno che il 18 marzo 1941 giunse sui tavoli dell’Ufficio VI dello Stato maggiore dell’esercito polacco in esilio, immediatamente inoltrato ai britannici. Fu la rete messa in piedi da Pilecki a fornire alle autorità polacche le informazioni sul disumano trattamento inflitto ai prigionieri di guerra sovietici ad Auschwitz e sull’inizio dello sterminio di massa degli ebrei a Auschwitz–Birkenau. Tutte notizie che il governo polacco in esilio inoltrava agli altri alleati. Pilecki durante la sua attività non venne mai scoperto, neppure il 20 giugno 1942 quando ulteriori e importanti informazioni fuoriuscirono da Auschwitz attraverso la fuga di quattro prigionieri travestiti da soldati tedeschi, come scrive uno dei protagonisti, Kazimierz Piechowski, un ingegnere impegnato sin da ragazzo nello scoutismo, nelle sue memorie pubblicate nel 2004 con il titolo Bylem Numerem: swiadectwa z Auschwitz (Ero un numero – testimonianze da Auschwitz).

Fu però il Raport W a destare maggiore interesse rispetto agli altri dossier stilati da Pilecki e consegnati ai compagni. Infatti tra il 26 e il 27 aprile del 1943 l’ufficiale polacco riuscì a fuggire dal campo di prigionia per trovare rifugio presso un gruppo di partigiani di base a Nowy Wisnicz. Qui stese un rapporto iniziale di circa undici pagine e mezzo. Qualche mese dopo, nell’autunno del 1943, scrisse una versione più dettagliata utile al rapporto più esteso completato nel 1945 mentre prestava servizio presso il Secondo Corpo d’Armata polacco sotto il Comando generale britannico durante la guerra di liberazione per l’Italia. «Altri avrebbero voluto impadronirsene, ma secondo me la cosa giusta da fare è metterlo nelle sue mani generale – scrive il capitano Pilecki nella lettera di accompagnamento al Rapporto datata 19 ottobre 1945 e intestata al Maggiore Generale Tadeusz Pelczynski –. La prego di non trattarlo come un resoconto (puramente) sensazionalistico perché si tratta di esperienze estreme di tanti polacchi onesti». Ed aggiunge: «Nulla è stato esagerato, anche la minima bugia profanerebbe la memoria di quelle degne persone che persero la vita laggiù». Una missiva scritta prima del suo ritorno, per sua scelta, nella Polonia sottoposta a processo di sovietizzazione, in cui venivano perseguitati gli aderenti alla resistenza polacca.

Antinazista e anticomunista, venne giudicato con un processo sommario e poi imprigionato a Varsavia dove venne ucciso il 25 maggio 1948. La prima pubblicazione del Rapporto di Witold Pilecki è avvenuta nel 2000, 55 anni dopo la guerra. Una traduzione in inglese, curata da Jarek Garlinski, è stata pubblicata nel 2012 con il titolo The Auschwitz Volunteer: Beyond Bravery, tradotto in Italia con il titolo Il volontario di Auschwitz edito da Piemme. Esce in questi giorni, invece, Volontario ad Auschwitz (Newton Compton) il volume di 416 pagine scritto dal giornalista e reporter di guerra Jack Fairweather dove si raccontano le vicende e le azioni che spinsero il capitano Pilecki a denunciare l’orrore della Soluzione Finale nazista.

Vincenzo Grienti

Per approfondire

Sopravvissuta a Ravensbruck
di Gerardo Severino e Vincenzo Grienti

Una donna, una scelta: quella di salvare centinaia di ebrei a rischio della propria vita. Una storia di umanità e di fede contro la banalità del male nell’Italia divisa in due dopo l’8 settembre 1943. La guerra, le difficoltà, le spie fasciste, i delatori avrebbero potuto farle paura. Non fu così. Anzi, con coraggio e con la forza della fede aiutò profughi, antifascisti e perseguitati politici perché andava fatto. Per questo aderì al gruppo clandestino Frama, collaborò con il finanziere Gavino Tolis e passò informazioni segrete oltre confine. Corrispondenza e ordini riservati destinati alle brigate partigiane operanti nel comasco. Per molti diventò l’angelo di Ponte Chiasso. Arrestata e deportata sopportò terribili sofferenze. Superò l’orrore del campo di concentramento e ritornò in Italia. Un racconto che fa riscoprire una figura poco conosciuta insignita con la Medaglia d’Oro al Merito Civile dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

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Il partigiano di Dio. Lo Schindler di Clivio

Una storia nella storia dell’Italia dopo l’8 settembre 1943: quella di don Gilberto Pozzi. Insieme al maresciallo della Guardia di Finanza Luigi Cortile e alla signora Nella Molinari, fondò a Clivio, nel Varesotto, una cellula partigiana dedita all’aiuto degli ebrei, dei profughi e dei perseguitati dal nazifascismo. Un uomo di fede che con coraggio e a rischio della propria vita fece una scelta di campo: aiutare centinaia di vite umane strappandole dalla prigionia, dalla deportazione e dalla morte. Don Pozzi trovò la collaborazione di altri sacerdoti e persone di buona volontà, sviluppando una rete che lavorava nell’ombra anche per passare informazioni agli Alleati e per produrre documenti di identità falsi pur di salvare gli ebrei. Il parroco di Clivio venne imprigionato nel carcere di San Vittore a Milano e liberato grazie all’intervento del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, mentre il maresciallo Cortile morì nel campo di Mauthausen-Melk. La signora Molinari si spense nel 1987 ma, grazie alla sua testimonianza e a un attento lavoro di ricerca storica e archivistica, il colonnello Gerardo Severino e il giornalista Vincenzo Grienti riportano alla luce una storia che potrebbe essere un film, e invece è vera. Per la sua opera umanitaria, don Gilberto Pozzi ricevette l’encomio del cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano.

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