Giorni di Storia

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16 marzo 1978: il rapimento di Aldo Moro

Il 16 marzo 1978 il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro viene rapito mentre 5 uomini della sua scorta vengono uccisi a Via Fani. Aldo Moro è stato uno dei fondatori della Democrazia Cristiana e padre fondatore della Repubblica Italiana. Diventò segretario della DC nel 1959. Ha ricoperto numerose cariche politiche, tra cui quelle di Ministro di Grazia e Giustizia (1955-57), Ministro della Pubblica Istruzione (1957-59), Ministro degli Esteri (1969-74) e Presidente del Consiglio (1963-68; 1974-76). Tuttavia viene ricordato soprattutto per aver riavvicinato la Democrazia Cristiana al Partito Comunista Italiano, attraverso quello che viene ricordato nella storia come “compromesso storico” del 28 giugno 1977.

Il corpo di Aldo Moro viene ritrovato morto dopo 55 giorni di prigionia, nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani, nei pressi della sede della Democrazia Cristiana, partito a cui apparteneva. Un tragico evento che ha profondamente segnato la storia italiana, in un’epoca in cui i crimini delle Brigate Rosse erano all’ordine del giorno.

A nulla valsero i ripetuti appelli di Paolo VI affinché Moro venisse liberato.

La tragica vicenda del rapimento di Aldo Moro che si concluse con l’assassinio dello statista ad opera di un nucleo delle brigate rosse è  diventato anche un film dal titolo “Il caso Moro” (1986) per la regia di Giuseppe Ferrara con Gian Maria Volonté. Vuole essere la ricostruzione di questo periodo dell’epoca in cui, per la prima volta dopo tanti anni di lotta politica, il partito comunista italiano sarebbe dovuto entrare nella maggioranza parlamentare, esprimendo fiducia al Governo Andreotti. Questo periodo fu segnato da angosce vivissime, da colpi di scena e vide lacerazioni profonde anche all’interno dei singoli partiti, tra coloro che propugnavano la fermezza e la salvaguardia delle Istituzioni e quelli invece che erano disponibili alla trattativa per la sua liberazione.

Nel libro “Lettere dalla prigionia” a cura di Miguel Gotor (Einaudi, 2018) si legge “Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.

In questo volume che parla dei 55 giorni di prigionia l’uomo politico scrisse un centinaio di lettere, che qui sono pubblicate integralmente. Miguel Gotor riordina cronologicamente l’intero carteggio e ne offre un’edizione accurata che restituisce alla prigionia di Moro le sue parole piú vere. E attraverso quelle parole riporta il lettore al quadro storico di quegli anni, ad una tragedia del potere raccontata in modo nuovo e avvincente: senza ipotesi fantasiose ma con una scansione di informazioni documentate, suggestive e inquietanti.

Scritto a caldo nel 1978 il libro “L’affaire Moro” (Adelphi) di Leonardo Sciascia è un evergreen. Mentre, in una nobile gara di codardia, i politici italiani, nonché i giornalisti, si affannavano a dichiarare che le lettere di Moro dalla prigionia erano opera di un pazzo o comunque prive di valore perché risultanti da una costrizione, Sciascia si azzardò a leggerle, con l’acume e lo scrupolo che sempre aveva verso qualsiasi documento. Riuscì in tal modo, sulla base di quelle lettere, a ricostruire una intelaiatura di pensieri, di correlazioni, di fatti che sono, fino a oggi, ciò che più ci ha permesso di capire, o di avvicinarci a capire, un episodio orribile della nostra storia. Presentando il libro nella sua ultima edizione (1983), Sciascia scriveva opportunamente «questo libro potrebbe anche esser letto come “opera letteraria”. Ma l’autore – come membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla “affaire” – ha continuato a viverlo come “opera di verità” e perciò lo si ripubblica (non più col rischio delle polemiche, ma del silenzio) con l’aggiunta della relazione di minoranza (di assoluta minoranza) presentata in Commissione e al Parlamento. Una relazione che l’autore ha voluto al possibile stringare, nella speranza abbia la sorte di esser largamente letta: qual di solito non hanno le voluminosissime relazioni che vengono fuori dalle inchieste parlamentari».

Più recente il libro edito da Lindau nel 2019 di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni. Si legge nella quarta di copertina: tutto quello che la gente sa sul cosiddetto «caso Moro» si basa in gran parte su una ricostruzione dei fatti frutto di un compromesso volto a formulare una «verità accettabile» sia per gli apparati dello Stato italiano, sia per gli stessi brigatisti. Le verità finora «non dette» emergono invece da quattro anni di lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro 2 che ha chiuso i suoi lavori nel dicembre 2018. Migliaia di documenti desecretati dagli archivi dei servizi segreti italiani, nuove prove della Polizia scientifica e dei RIS dei Carabinieri, centinaia di nuove testimonianze, permettono finalmente di «ristrutturare il campo della conoscenza» di questo grande delitto della storia italiana, paragonabile, nell’età contemporanea, solo al caso Matteotti. Una sterminata serie di nuovi elementi (non teorie cospirative) permettono di dare «una nuova forma» agli avvenimenti dei 55 giorni del sequestro e a quello che finora ne sapevamo e fanno emergere uno scenario internazionale del delitto (dal Cile al Nicaragua) che i brigatisti hanno sempre negato. Il Muro di Berlino, ai tempi del rapimento di Moro ancora solidamente in piedi, si era trasformato in Italia in un muro di specchi che ha impedito di vedere la più grande operazione «segreta» concepita nel corso della Guerra Fredda. Ma ecco qualche esempio di quanto si è accertato. Almeno due terroristi della Rote Armee Fraktion, la formazione terroristica tedesca gestita dalla Stasi (il servizio segreto della Germania Est), erano in via Fani. Un insolito caffè, posto all’angolo della strada dove avvenne l’agguato, era al centro di un vasto traffico d’armi con il Medio Oriente e con la criminalità organizzata. La prima prigione di Moro era nell’attico di una palazzina dello Ior, la banca vaticana. Secondo le nuove perizie, l’omicidio ben difficilmente è potuto avvenire nel box di via Montalcini 8 così com’era nel 1978. Invece, secondo convergenti testimonianze, Moro fu ucciso nei pressi di via Caetani, in «una cantina di un’ambasciata che adesso lì non c’è più». Fu un imprenditore israeliano che fornì i 10 miliardi del riscatto consegnati a Paolo VI. Le fazioni palestinesi giocarono un pesante ruolo nella trattativa, e il principale protagonista di essa venne ucciso a Berlino Est. Durante il sequestro passarono alle BR documenti top secret della NATO. Quanto basta, evidentemente, per delineare un contesto nuovo e sconcertante.

Berni Pozzo Dal Negro