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27 maggio 1923: nasce don Lorenzo Milani

Don Lorenzo Milani nacque il 27 maggio 1923. La sua figura di prete è legata all’esperienza didattica rivolta ai bambini poveri nella disagiata e isolata scuola di Barbiana, nella canonica della chiesa di Sant’Andrea. I suoi scritti innescarono aspre polemiche, coinvolgendo la Chiesa cattolica, gli intellettuali e politici dell’epoca; Milani fu un sostenitore dell’obiezione di coscienza opposta al servizio militare maschile (all’epoca obbligatorio in Italia); per tale motivo fu processato per apologia di reato. In primo grado venne assolto “perché il fatto non costituisce reato”, mentre in appello morì prima che si giungesse a sentenza. 

Il suo libro Esperienze Pastorali, inizialmente dotato dell’imprimatur ecclesiastico, fu oggetto di un decreto del Sant’Uffizio del 1958 contenente la proibizione di stampa e di diffusione e, solo nel 2014, dopo 56 anni, la ristampa del libro non ha più avuto proibizione da parte della Chiesa.

La riflessione del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI

Tutti dobbiamo leggere di nuovo “Lettera a una professoressa” e ricordarci che è indirizzata anche a noi. Accettiamo il rigore, l’intransigenza di don Milani. Non è eccesso, ma intelligente amore, evangelico e umano, che aiuta a capire da che parte stiamo e a verificare senza sconti dove siamo stati. E capirlo ci toglie qualche giustificazione ipocrita, ci fa comprendere le omissioni, la falsità della neutralità e ci aiuta a scegliere. Don Milani non può essere ridotto a banale politically correct, facile esortazione o denuncia. Ferisce, perché svela le parole vuote, la retorica che copre l’inedia e chiama questa per nome, senza sconti. Come disse don Bensi, don Milani è «un diamante che doveva ferirsi e ferire». Egli ci mette di fronte alle nostre responsabilità di ruolo e di paternità, ci chiede di farci carico
di chi è più fragile e non di fornirgli istruzioni per l’uso senza aiutarlo, sistema che fa sentire a posto chi può sempre dire “io lo avevo detto” ma senza che si sia mai dato da fare per aiutare. Don Milani ci costringe tutti a venire ancora in questo “non luogo” da dove capiamo i nostri luoghi. Barbiana è un piccolo universo che ci fa vedere tutti i luoghi dei bambini di sempre e di oggi, i figli delle tante Barbiana nascoste nelle case delle periferie o nei campi profughi, dove accettiamo crescano migliaia di bambini senza futuro e senza scuola. Don Milani ci costringe a sporcarci di fango, di vita vera, perché non si lascia certo ridurre a oggetto da
salotto senza cambiare il salotto o senza uscirne, proprio come aveva fatto lui, borghese, colto, che scelse di imparare diventando maestro e alunno dei poveri, stando dalla parte dei poveri per trovare la propria parte, profeta intransigente di cambiamento, obbedientissimo e per questo libero prete della sua Chiesa senza la quale non voleva vivere. Ecco la lezione di don Milani, per tutti, credenti e non, prete e cittadino italiano: per cambiare le cose non serve innamorarsi delle proprie idee, ma bisogna mettersi nelle scarpe dei ragazzi di allora e di oggi, degli universali Gianni e non darsi pace finché non siano strappati da un destino già segnato. Don Milani crede che essi possano essere quello che sono e che questo può essere raggiunto solo grazie ad una scuola che li difende più di qualsiasi altra maestra, una scuola che non certifica il demerito ma che garantisce a tutti il loro merito, le stesse opportunità perché non taglia la torta in parte uguali, quando chi deve mangiare non è uguale. Perché la scuola, scriveva, «siede tra il passato e il futuro». E la sfida del futuro inizia nella scuola. Sentiamo la ferita che le disuguaglianze sono aumentate in questi venti anni, come l’abbandono scolastico. «Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo». La parola per lui era sacra e profana insieme, perché è quella che ci rende immagine e somiglianza di Dio.

La sua è stata una vita brevissima, alla quale la Chiesa in Italia e tutto il nostro Paese devono molto. Ha fatto della radicalità evangelica (perché c’è un Vangelo tiepido?) il senso del suo amore alla vita e della sua fedeltà a Cristo. Da credente. «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete”». Tre aspetti e tre riferimenti biblici. «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,19). Con il passare degli anni ci siamo accorti dell’eredità di don Milani guardando alla sua fecondità
generativa. Don Lorenzo si è rivelato uno straordinario formatore di coscienze. «Vedeva i ragazzi come potevano essere»(1), non solo come erano di fatto. Calenzano e Barbiana sono diventati patrimonio dell’umanità e riserva civica di democrazia per il nostro Paese. Scuola, lavoro, economia, politica e società si tengono sempre insieme. Ha accompagnato le persone ad assumersi responsabilità nella vita, non accettando fossero prigionieri del consumismo, passivi e catturati dal tanto, offerto per non pensare. «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale»(2).

Il secondo: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24). I poveri lo hanno convertito. «Devo tutto – scrive in Esperienze pastorali – quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere»(3). Da qui il suo impegno perché si superasse l’atavico pericolo che la povertà e la ricchezza venissero tramandate di generazione in generazione. Mettere i poveri al centro della vita trasforma la storia: Gesù Cristo ce lo ha insegnato con chiarezza e il priore di Barbiana li ha semplicemente messi al centro. Non si è Chiesa se non si è di tutti, ma particolarmente dei poveri, e, solo perché dei poveri, è di tutti.
Infine, «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo» (Sal118,22-23 in Mt 21,42). La Chiesa stessa ha faticato a comprendere il messaggio di don Milani. L’“esilio di Barbiana”, come lo si è chiamato, è stato da lui accolto con sguardo di fede, nonostante fosse consapevole che potesse suonare come un’incomprensione, un insulto alla sua «onorabilità d’uomo, di cattolico e di sacerdote», come scrisse alla madre l’11 aprile 1963 (4). La condanna nel 1958 di “Esperienze pastorali”, con la richiesta del ritiro dal commercio è rientrata solo nel 2014 e pienamente riconciliata dalla visita di Papa
Francesco che volle onorarlo, pregando sulla tomba di questo prete cercatore di assoluto (non è la vita tutta che lo cerca?) che non voleva il suo apostolato fosse un fatto privato e riconoscendo nella sua vita «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa». Don Lorenzo ha trasformato un esilio in un esodo, ha preso per mano la Chiesa, rivendicando il suo servizio agli ultimi come dimensione spirituale e servizio ecclesiale.

«Speravo di non esser più un “genio isolato e superiore”, ma una intelligente rotellina fra le tante della grande macchina di Dio». Oggi ricorda alla Chiesa che le basta il Vangelo e l’amore che genera amore e alla Repubblica che deve ancora «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» perché l’uguaglianza è il suo “compito” da non tradire. Don Lorenzo ci mette in cammino verso il futuro, con la vera risposta che è la passione evangelica e umana capace di generare vita.
Il futuro, la bellezza della vita benedetta e più forte delle paure, per cui vale la pena viverla e donarla, è tutto nel I Care. I Care ci libera dall’osceno e disumano me ne frego, anche quello detto con più raffinatezza. Il primo I care è quello di Dio, il miglior maestro e padre.
Grazie don Lorenzo. Ti dobbiamo tanto I Care. Il tuo ci aiuta a non averne paura. Anzi ad avere paura di non viverlo. Perché avevi ragione come pregasti: «Signore, io ho provato che costruire è più bello che distruggere, dare più bello che ricevere, lavorare più appassionante che giocare, sacrificarsi più divertente che divertirsi. Signore Gesù fa ch’io non me ne scordi più».

Barbiana, 27 maggio 2023

1 A. CORRADI, Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, Milano 2012, 119.
2 L. MILANI, Esperienze pastorali, LEF, Firenze 1972, 241.
3 L. MILANI, Esperienze pastorali, 235.
4 L. MILANI, Alla mamma. Lettere 1943-1967, Marietti, Genova 1990, 390.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Barbiana nel giorno del centenario

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Barbiana – Foto Quirinale

Il discorso di Mattarella

Rivolgo un saluto a tutti i presenti, che vorrei poter salutare singolarmente, come posso fare con il Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinale Zuppi, con il Cardinal Betori, con il Presidente della Regione, con il Sindaco, ringraziandolo per le parole iniziali di ricordo di quanto avvenuto in Romagna nei giorni scorsi, e per il ricordo del regalo che quei territori hanno fatto alla cultura e all’arte con Giotto e il Beato Angelico.

Poc’anzi, vedendo la piccola chiesa qui accanto, vedendo le vetrate realizzate dei ragazzi di don Milani a suo tempo, ho visto che quella creatività artistica non si è esaurita.

Vorrei salutare e ringraziare la Presidente della Corte di Cassazione e il Sindaco di Firenze; ringraziare molto per l’invito la Presidente Bindi e il Presidente Burberi. Grazie per questo invito ad essere qui.

E vorrei ringraziare anche Yasmine per quanto ha detto sull’esperienza che sta continuando a svolgere.

È stato un bel modo, così, di ricordare oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani.

Ricordiamo oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani.

È stato anzitutto un maestro. Un educatore. Guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare di Calenzano prima, e di Barbiana poi.

Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana.

Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano tra di noi ma che, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: far crescere le persone, far crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia.

Don Lorenzo avrebbe sorriso di fronte a una rappresentazione come antimoderno, se non medievale, della sua attività. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario.

Nella sua inimitabile azione di educatore – e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale.

Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale.

Era stato mandato qui a Barbiana, come sappiamo, in questo borgo tra i boschi del Mugello – con la chiesa, la canonica e poche case intorno – perché i suoi canoni, nella loro radicalità, spiazzavano l’inerzia.

La sua fede esigente e rocciosa, il suo parlare poco curiale, i suoi modi, a volte impetuosi, lontani da quelli consueti, destavano apprensione in qualche autorità ecclesiastica.

In tempi lontani dalla globalizzazione e da internet, da qui, da Barbiana – allora senza luce elettrica e senza strade asfaltate – il messaggio di don Milani si è propagato con forza fino a raggiungere ogni angolo d’Italia; e non soltanto dell’Italia.

Don Milani aveva una acuta sensibilità circa il rapporto – che si pretendeva gerarchico – tra centri e periferie.

Come uscire da una condizione di emarginazione? Come sollecitare la curiosità, propulsore di maturità? Come contribuire, da cittadini, al progresso della Repubblica?

Il motore primo delle sue idee di giustizia e di uguaglianza era appunto la scuola. La scuola come leva per contrastare le povertà. Anzi, le povertà.

Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino.

La scuola per conoscere.

Per imparare, anzitutto, la lingua, per poter usare la parola.

“Il mondo – diceva don Milani – si divide in due categorie: non è che uno sia più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco. Un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole”.

Si parte con patrimoni diversi. Da questa ansia si coglie il suo grande rispetto per la cultura.

La povertà nel linguaggio è veicolo di povertà completa, e genera ulteriori discriminazioni.

La scuola, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine.

“Lettera a una professoressa”, scritta con i suoi ragazzi mentre avanzava la malattia – che lo avrebbe portato via a soli 44 anni – è un atto d’accusa, impietoso, di tutto questo.

“Lettera a una professoressa” ha rappresentato una lezione impartita a fronte delle pigrizie del sistema educativo e ha spinto a cambiare, ha contribuito a migliorare la scuola nel mezzo di una profonda trasformazione sociale del Paese.

Ha aiutato a comprendere meglio i doveri delle istituzioni e ha sollecitato a considerare i doveri verso la comunità.

Sempre più gli insegnanti hanno lavorato con passione per attuare i nuovi principi costituzionali. Perché a questo occorre guardare.

La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti.

Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: “Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”.

Impossibile non cogliere la saggezza di questi pensieri. Era la sua pedagogia della libertà.

Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito.

Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto, e anche per non far perdere all’Italia talenti; preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito.

I suoi ragazzi non possedevano le parole. Per questo venivano esclusi. E se non le avessero conquistate, sarebbero rimasti esclusi per sempre.

Guadagnare le parole voleva dire incamminarsi su una strada di liberazione. Ma chiamava anche a far crescere la propria coscienza di cittadino; a sentirsi, allo stesso tempo, titolare di diritti e responsabile della comunità in cui si vive.

Aveva – come si vede – un senso fortissimo della politica don Lorenzo Milani.

Se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era – mi permettano i Cardinali presenti – il suo vangelo laico. “Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

Difficile trovare parole più efficaci.

Difficile non riscontrare lo stretto legame del suo insegnamento con la fede che professava: prima di ogni altra cosa, il rispetto e la dignità di ogni persona. Qui si intrecciano il don Milani prete, l’educatore, l’esortatore all’impegno.

L’impegno – educativo, e di crescita – richiede sempre, per essere autentico, coerenza. Spesso sacrificio. Al pari di tanti curati di montagna che hanno badato alle comunità loro affidate, Don Milani non si è sottratto. Era giovane. Chiedeva ai suoi ragazzi di non farsi vincere dalla tentazione della rinuncia, dell’indifferenza.

La scuola di Barbiana durava tutto il giorno.

Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare insieme agli altri. Cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico.

Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere qualcuno a tacere, tanto meno – vorrei aggiungere -un libro o la sua presentazione.

Insomma, invitava a saper discernere.

Quel primato della coscienza responsabile, che spinse don Milani a rivolgere una lettera ai cappellani militari, alla quale venne dato il titolo “l’obbedienza non è più una virtù” e che contribuì ad aprire la strada a una lettura del testo costituzionale in materia di difesa della Patria per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.

Padre David Maria Turoldo, amico di don Milani, disse di lui che “diventando disobbediente” (in realtà non lo è mai stato) in realtà obbediva a principi e regole ancora più profonde e vincolanti. Non certo a un capriccio o a una convenienza.

Non c’era integralismo nelle sue parole, piuttosto radicalità evangelica. Ma, come poc’anzi ricordava il Cardinale Zuppi, andrebbe detto autenticità evangelica.

Sapeva di avere in mano un testimone. Un testimone che doveva passare di mano, a cui poi i suoi ragazzi “aggiungessero” qualcosa.

Un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva.

Il suo “I care” è divenuto un motto universale.

Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza.

A quella espressione se ne aggiungeva un’altra, meno conosciuta.

Diceva: “Finché c’è fatica, c’è speranza”.

La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire.

E don Lorenzo ha percorso un vero cammino di costruzione. E gli siamo riconoscenti.

 

La biografia di Don Lorenzo Milani (fonte: Fondazione Don Lorenzo Milani)

Don Lorenzo nasce a Firenze il 27 maggio 1923 in una colta famiglia borghese. E’ figlio di Albano Milani e di Alice Weiss, quest’ultima di origine israelita.

Nel 1930 da Firenze la famiglia si trasferì a Milano dove don Lorenzo fece gli studi fino alla maturità classica. Dall’estate del 1941 Lorenzo si dedicò alla pittura iscrivendosi dopo qualche mese di studio privato all’Accademia di Brera.

Nell’ottobre del 1942, causa la guerra, la famiglia Milani ritornò a Firenze. Sembra che anche l’interesse per la pittura sacra abbia contribuito a far approfondire a Lorenzo la conoscenza del Vangelo.

In questo periodo incontro don Raffaello Bensi, un autorevole sacerdote fiorentino che fu da allora fino alla morte il suo direttore spirituale.

Nel novembre del 1943 entrò in Seminario Maggiore di Firenze. Il 13 luglio 1947 fu ordinato prete e mandato in modo provvisorio a Montespertoli ad aiutare per un breve periodo il proposto don Bonanni e poi, nell’ottobre 1947 a San Donato di Calenzano (FI), cappellano del vecchio proposto don Pugi.

A San Donato fondò una scuola popolare serale per i giovani operai e contadini della sua parrocchia.

Il 14 novembre 1954 don Pugi moriva e don Lorenzo fu nominato priore di Barbiana, una piccola parrocchia di montagna. Arrivò a Barbiana il 7 dicembre 1954. Dopo pochi giorni cominciò a radunare i giovani della nuova parrocchia in canonica con una scuola popolare simile a quella di San Donato. Il pomeriggio faceva invece doposcuola a in canonica ai ragazzi della scuola elementare statale.

Nel 1956 rinunciò alla scuola serale per i giovani del popolo e organizzò per i primi sei ragazzi che avevano finito le elementari una scuola di avviamento industriale.

Nel maggio del 1958 dette alle stampe Esperienze pastorali iniziato otto anni prima a San Donato.

Nel dicembre dello stesso anno il libro fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio, perchè ritenuta “inopportuna” la lettura.

Nel dicembre del 1960 fu colpito dai primi sintomi del male (linfogranuloma) che sette anni dopo lo portò alla morte,

Il primo ottobre 1964 insieme a don Borghi scrisse una lettera a tutti i sacerdoti della Diocesi di Firenze a seguito della rimozione da parte del Cardinale Florit del Rettore del Seminario Mons. Bonanni.

Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera aperta ad un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato.

Al processo, che si svolse a Roma, non poté essere presente a causa della sua grave malattia. Inviò allora ai giudici un’autodifesa scritta. Il 15 febbraio 1966, il processo in prima istanza si concluse con l’assoluzione, ma su ricorso del pubblico ministero, la Corte d’Appello quando don Lorenzo era già morto modificava la sentenza di primo grado e condannava lo scritto. Nel luglio 1966 insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana iniziò la stesura di Lettera a una professoressa.

Don Lorenzo moriva a Firenze il 26 giugno 1967 a 44 anni.