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Vittorio Ferrero: l’eroe di San Salvario

Duecento anni orsono, in una Torino in preda alla repressione poliziesca varata da Re Carlo Felice di Savoia, veniva decretata la fine della gloriosa Legione Reale Leggera, il Corpo di Soldati-Finanzieri piemontesi, uno dei Corpi dai quali trae origine l’odierna Guardia di Finanza ed al quale era affidato il compito di assicurare la vigilanza politico militare delle frontiere del piccolo Stato Savoiardo. Il reparto, costituito originariamente con elementi provenienti da vari reparti di Fanteria Leggera, fra cui la contestualmente disciolta Legione Reale Piemontese (anch’essa Corpo di Finanza preunitario), si rifaceva alla tradizione della gloriosa Legione delle Truppe Leggiere, sorta sempre a Torino nell’ottobre del 1774. La Legione, dalla cui Bandiera d’Ordinanza derivò la tradizione araldica delle gloriose Fiamme Gialle, era stata  istituita il 9 settembre del 1817, col duplice fine di provvedere alle funzioni della Fanteria Leggiera, in tempo di guerra, ovvero alla vigilanza del c.d. “Cordone Doganale”, come veniva allora definita la linea di confine, in tempo di pace. In tale ambito, in realtà, avrebbe cooperato, sebbene con non poche difficoltà, con il Corpo dei Preposti Doganali, allora dipendente dalla Direzione Generale delle Gabelle. Anch’esso di ispirazione francese, quello dei Preposti Doganali, per volere del Re di Sardegna, era stato mantenuto in vita, a seguito della Restaurazione del 1814-1815, in quanto si era dimostrato molto più efficiente rispetto ai Militi Doganali stipendiati dai c.d. “Arrendatori delle Gabelle”. In verità, la coesistenza dei due organismi avrebbe innescato tutta una serie di problematiche e di attriti, dovuti principalmente dal fatto che nella Legione erano confluiti, peraltro in percentuale rilevante, molti italiani reduci delle Armate Napoleoniche, come lo era l’eroico Capitano Vittorio Ferrero, al quale dedichiamo il presente saggio e di cui tratteremo a breve. Gli stessi problemi confermarono la loro gravità in occasione dei Moti Carbonari del 1821, allorquando alcuni reparti della stessa Legione dimostrarono una scarsa fedeltà alla Monarchia di Savoia.

12 gennaio 1821, la repressione della rivolta studentesca

I Moti del 1821 in Piemonte ed il ruolo della Legione Reale Leggiera.

Questi i fatti. In Europa e in una Penisola Italiana, che a partire dal 1820 si trovavano completamente in preda ai sentimenti liberali, con la difesa ad oltranza di quanto i c.d. “Moti Costituzionalisti” erano riusciti ad ottenere sia in Spagna che a Napoli, anche i primi mesi dell’anno 1821 sembrarono offrire la possibilità per nuovi “Pronunciamenti”. A Torino, capitale del piccolo Regno di Sardegna, l’11 gennaio si tenne presso il Teatro d’Angennes (ora Teatro Gianduia)  una manifestazione filo-liberale, alla quale seguirono alcun scontri con la Polizia, la quale operò diversi arresti. Analoga situazione si verificò presso l’Università, ove l’Esercito caricò gli studenti, ferendone diciotto, due dei quali molto gravemente. Lo scontro determinò la temporanea chiusura dell’ateneo. Le rivolte studentesche erano scaturite a causa della politica repressiva e retrograda, che il vecchio Sovrano restaurato sul trono Torinese aveva varato a partire dal 1814. La scelta Costituzionale varata a Napoli nel corso del 1820 aveva, infatti, fomentato le speranze, tanto da invogliare la nascita di nuove Società segrete, prima fra tutte quella dei “Federati”, modellata a verosimiglianza delle logge Massoniche, formata soprattutto da giovani, studenti e nobili Torinesi, che certamente non facevano mistero dei propri ideali, soprattutto presso gli storici caffè dell’antica Capitale Savoiarda. Alle manifestazioni di gennaio fecero, tuttavia, séguito giorni di dura repressione, con perquisizioni, sequestri di giornali e pamphlet considerati rivoluzionari, ma anche con numerosi arresti. Nelle settimane seguenti, complice anche l’atteggiamento filo-liberale del Principe di Carignano, Carlo Alberto, i liberali si organizzarono onde costringere il Re Vittorio Emanuele I a concedere la Costituzione, ma anche per dichiarare guerra all’Austria, le cui truppe, in febbraio, erano “calate” da Milano in direzione di Napoli, onde porre fine con le armi la breve esperienza della c.d. “Monarchia Costituzionale”. Per raggiungere questi scopi fu organizzata una vera e propria insurrezione, preventivata per il giorno 10 marzo. Il “Pronunciamento” popolare fu, quindi, innescato presso la Cittadella Militare di Alessandria, ove fu issata la bandiera tricolore per la prima volta nella storia risorgimentale, ovviamente insieme a quella carbonara, esempio seguito subito dopo dai Presidi di Vercelli e Torino. Il successivo giorno 11, una colonna di soldati e civili, con in testa la bandiera della Carboneria, attraversò Torino, diretta ad Asti. Sul piano generale della nostra storia riordiamo che fu in località San Salvario, nei pressi di Torino, che lo stesso 11 marzo, un venerdì, si distinse il prima citato Capitano Vittorio Ferrero, il quale, con appena 80 uomini della Legione Reale Leggera proclamò coraggiosamente la Costituzione[1]. Al Manipolo di Soldati-Finanzieri si unirono circa 200 studenti, capeggiati dal medico Pietro Carta, di Biella e dall’Avv. Pietro Fechini, di Mondovì, successivamente armati grazie all’Avv. Pollone.

La rivolta di San Salvario

E fu lo stesso Ferrero, così come narra il suo biografo Beolchi, che condannò aspramente il colpo di pistola che lo studente Niccolini aveva diretto in faccia al Colonnello Raimondi, comandante della stessa Legione Reale Leggera rimasto fedele al Monarca, il quale era giunto in carrozza onde far desistere il dipendente dall’insano gesto[2]. Lo storico del Corpo, Generale Sante Laria così descrisse l’evento: <<D’ordine del governatore della città, conte Ignazio di Revel, il colonnello Raimondi, comandante della Legione Leggera, accorsi sul posto; il Ferrero gli andò incontro; il colonnello lo minacciò con la sciabola in pugno, tentando di arringare la truppa, ma uno studente gli scaricò sul viso un colpo di pistola carica a polvere che gli produsse un’ustione alla guancia destra. Il Ferrero investì aspramente il feritore e fece subito prodigare le necessarie cure al colonnello; il quale ritornò poi a Torino pieno di bile e con propositi di vendetta>>[3]. Una grande folla di Torinesi ebbe la gioia di vedere, nei pressi dell’attuale largo Marconi, il Capitano Ferrero innalzare il tricolore dei Federati e gridare con i suoi soldati radunatesi vicino alla chiesa: <<Viva il Re e la Costituzione di Spagna!>>.

Nel dettaglio aggiungiamo, quindi, che il Capitano Ferrero schierò davanti alla chiesa di San Salvario[4] i suoi uomini: ottanta soldati della 2^ Compagnia, 3° Battaglione della Legione Reale Leggera, in aperta sfida alla guarnigione di Torino, la quale contava almeno cinquemila uomini. Fu innalzato il tricolore rivoluzionario: nero, rosso e azzurro, lo stesso che era già stato inalberato a Napoli. In quella circostanza i rivoltosi della Legione si fronteggiano con un Battaglione di Carabinieri, ai quali lo stesso Ferrero disse: <<Dite a Sua Maestà che nulla ha da temere da noi, ma che vogliamo la costituzione di Spagna e la guerra all’Austria>>. Seguirono delle trattative che però sfociano in un incidente che coinvolse l’emissario della Casa Reale, per l’appunto il Colonnello Raimondi, come si ricordava prima. A quel punto la situazione precipitò, tanto che i rivoltosi decisero di ripiegare. Attraversato il Po con le barche, raggiunsero la collina del Valentino e così, a tappe forzate, arrivarono, infine, il giorno 13 marzio ad Alessandria, città già in mano ai rivoluzionari, dove verrà fondato il c.d. “Consiglio di San Salvario” di cui Ferrero fu eletto Presidente. Nel frattempo, la mattina del giorno 12 tre cannonate annunziavano ai Torinesi che la bandiera italiana sventolava da alcuni ufficiali d’Artiglieria sugli spalti della Cittadella Militare, anch’essa sollevatasi dietro l’esempio della Legione Reale. Re Vittorio Emanuele, incerto fra l’ordine di reprime o di trattare con gli insorti, decise di non intervenire. E fu proprio in quell’occasione che fu emesso, da parte dei Generali insorti, il famoso “Pronunciamento”, una sorta di proclama con il quale si decise l’adozione di una Costituzione, improntata su quella spagnola di Cadice del 1812, la quale prevedeva maggiori diritti per il popolo piemontese e una riduzione del potere del Sovrano. A quel punto Re Vittorio, dopo aver tentato di convincere gli insorti all’obbedienza con una sorta di appello alla fedeltà e ricevuto da Lubiana (ove si trovavano riuniti in Congresso i Sovrani di Mezz’Europa) il diktat da parte delle Potenze straniere, preferì abdicare in favore del fratello Carlo Felice di Savoia, che si trovava però a Modena. La reggenza venne così affidata al Principe Carlo Alberto che, assunto l’incarico, dapprima fu assalito da dubbi poiché non volle prendere decisioni senza consultare Carlo Felice (da qui il nomignolo di “Re tentenna”, attribuitogli dalla Storia), ma premuto dai liberali, concesse, il 13 marzo, la Costituzione, nominò una giunta, concesse l’amnistia agli insorti e nominò Santorre di Santarosa Ministro della Guerra e capo del Governo provvisorio. A quel punto il Congresso di Lubiana decise di inviare apposite Truppe onde riordinare l’Italia, tanto è vero che lo stesso Carlo Felice intimò a Carlo Alberto di raggiungere Novara, dove andava formandosi un vero e proprio esercito posto agli ordini del Generale Vittorio Sallier De La Tour, il quale avrebbe dovuto contrastare gli insorti Torinesi. Va ricordato che fu proprio in virtù dell’entusiasmo suscitato dai Moti Torinesi che il grande Alessandro Manzoni compose l’ode “Marzo 1821”, volendo celebrare il paventato attraversamento del Ticino da parte dell’Armata Sarda, in appoggio ai patrioti lombardi contro gli austriaci. La storia ci ricorda, invece, che tornando a Torino, Re Carlo Felice revocò la Costituzione e impose a Carlo Alberto di abbandonare la città, rinunciando definitivamente sia alla sua carica che alla guida del movimento di rivolta. Nella notte del 22 marzo, mentre alcuni patrioti, tra cui lo stesso Santorre di Santa Rosa, annunciavano una prossima guerra contro l’Austria, Carlo Alberto fuggì segretamente a Novara, abbandonando gli insorti al loro destino. Poche ore dopo, il Santa Rosa, alla guida di un piccolo Manipolo di soldati, si recò nella città piemontese per tentare di convincere il Principe e le sue truppe a tornare dalla sua parte, ma la missione si rivelò del tutto infruttuosa, data l’assenza di Carlo Alberto. In ogni caso fu lanciato un appello a tutti i soldati piemontesi onde muovere guerra all’Austria. Nel frattempo, un nuovo tentativo di insurrezione si consumò a Genova il 23 marzo, vedendo, anche in questo caso l’intervento di un reparto della Legione Reale Leggiera, per l’esattezza la 4^ Compagnia del 4° Battaglione, capeggiata dal Foriere Michele Simondi[5].

Agli inizi di aprile gravi scontri si verificarono a Torino tra il Reggimento provinciale di Alessandria e i Carabinieri Reali, rimasti fedeli alla Corona, mentre fra il 7 e l’8 dello stesso mese i Costituzionalisti vengono sconfitti a Novara da parte delle truppe Austriache giunte in soccorso delle truppe realiste[6]. Fra i soldati che difendevano i valori Costituzionali non poteva mancare il Capitano Ferreo, il quale lo stesso 8 aprile resistette valorosamente nei pressi del ponte dell’Agogna, sempre nei pressi di Novara. Nei giorni seguenti giunsero a Torino, come supporto all’esercito regio, plotoni austriaci che inflissero una pesante sconfitta agli stessi Costituzionalisti. Fu così che il neonato Governo cadde dopo neppure due mesi e il sogno dei rivoluzionari si infranse, così come s’infransero le speranze di libertà alle quali avevano creduto sia il Capitano Vittorio Ferrero che gran parte dei Legionari che avevano saputo affrontare, con onore e determinazione, quella grande sfida. Mentre, sul finire di maggio, pesanti condanne verranno inflitte a tutti i militari coinvolti, da parte di un’apposita Commissione voluta dallo stesso Carlo Felice, pesanti conseguenze colpirono la stessa Legione Reale Leggiera. La storia di tale Corpo ci ricorda, infatti, che il 12 giugno dello stesso 1821, la Legione fu dapprima ridimensionata, poi sollevata dal servizio di vigilanza del “Cordone” e successivamente, nel dicembre dello stesso anno, soppressa nel quadro di una riorganizzazione dell’esercito Piemontese. Da quel momento in avanti, a tutelare i “Sacri Confini della Patria” c’avrebbero pensato i soli Militi del Corpo dei Regi Preposti delle Gabelle, uomini in uniforme verdone che vi operarono sino al 1862, allorquando confluirono nel Corpo delle Guardie Doganali del Regno d’Italia.

Il Capitano Vittorio Ferrero

L’Eroe di San Salvario, il Capitano Vittorio Ferrero (1785 – 1853).

<<La storia delle rivoluzioni serba pochi esempio di azione tanto arrischiata e il nome di Vittorio Ferrero durerà immortale e sarà pronunziato con riverenza finché arda sulla terra il sacro fuoco di libertà>>. Con questa bellissima frase, Santorre di Santarosa volle ricordare, la figura del Capitano Ferrero nel suo interessantissimo libro “Storia della Rivoluzione Piemontese del 1821”, di cui abbiano già fatto cenno in precedenza. Ma ora vediamo da vicino chi fu veramente il Ferrero. Secondo molte e accreditate fonti storiche[7], Vittorio Ferrero nacque a Torino, da famiglia benestante, il 27 gennaio del 1785, mentre secondo altre l’evento si sarebbe verificato nel 1786, mentre secondo altri addirittura nel 1790[8]. Nel 1805 lo troviamo volontario nell’Esercito Napoleonico, ed in seguito valoroso soldato del 24° Reggimento “Nunanzia” dei Dragoni Francesi, nei ranghi dei quali raggiunse il grado di Maresciallo d’Alloggio, distinguendosi durante l’assedio di Figuerars, in Spagna, nel corso del quale fu ferito gravemente, così come altrettanto accadde a Vich, ove fu addirittura colpito da ben 10 o 11 sciabolate[9]. Il suo eroismo gli valse la promozione ad ufficiale, così come varie volte fu proposto per l’ambitissima Onorificenza della Legion d’Onore, purtroppo mai concessa da Napoleone Bonaparte, impegnato nelle sue Campagne militari in giro per l’Europa. Tornato in Patria, Vittorio Ferrero fu ammesso nel Corpo dei Cacciatori Reali Piemontesi (anch’esso Corpo di Finanza preunitario), nel 1814, per poi transitare, nel corso dello stesso anno nei neo costituito Corpo dei Carabinieri. Nel 1815 fu promosso Tenente, mentre nel 1817 viene trasferito alla Legione Reale Leggera, reparto di recentissima costituzione come abbiamo già ricordato in precedenza. Qui, nel 1820, ottiene il grado Capitano, destinato al Comando della Compagnia di San Salvario. Condannato a morte “in effige” (vale a dire in contumacia), con sentenza della Regia Delegazione del 26 aprile 1822, e i suoi beni confiscati per la compromissione nei “Moti del 1821”, così come accadde per gran parte dei Legionari ribelli e per tutti gli altri insorti, il Capitano Ferrero riuscì a sfuggire alla cattura, espatriando da Genova, il 13 di aprile, assieme ad altri 58 esuli, imbarcandosi  sul brigantino “La Speranza”,  in direzione di Tarragona, per poi proseguire alla volta di Barcellona. In Spagna egli combatté contro i Carlisti, distinguendosi nel corso delle battaglie di Gerona, di Matarò e di Molins le Rey, ove si scontrò con le truppe francesi, le quali, manco a farlo apposta erano accorse con lo stesso Carlo Alberto, che doveva espiare le sue simpatie liberali, onde riportare sul trono Re Ferdinando VII.

Una vecchia stampa ottocentesca dedicata alla Legione Reale Leggiera

Nel tentativo di raggiungere Saragozza, Vittorio Ferrero e gli altri esuli italiani si scontrarono con due reggimenti di lancieri francesi che li annientano. Il Ferrero fu fatto prigioniero e, privato anche delle scarpe, fu costretto dai vincitori a camminare fino a Saragozza a piedi nudi, percorrendo così quasi 200 chilometri. L’Eroe di San Salvario fu tenuto prigioniero per qualche tempo, poi fu trasferito nelle carceri di Agen, città della Francia sud occidentale, sulle rive della Garonna. Dopo sette mesi di prigionia gli fu offerta la libertà, a patto che lasciasse la Francia. Fu così che l’ufficiale Torinese s’imbarcò a Havre-de-Grace. Nel corso del 1823 (secondo altre fonti, il 15 maggio del 1824) approdo, quindi, a Londra. Dalla capitale inglese mandò una lettera a Santorre di Santa Rosa, uno dei capi dei “Moti del 1821”, che nel frattempo era andato in Grecia per battersi contro i turchi. Gli diceva di volere essere al suo fianco, sotto la bandiera dell’indipendenza greca. Ma il Santa Rosa, nel rispondergli, il 3 aprile del 1823, lo sconsigliò di venire, concludendo la sua accorata lettera con la seguente frase:  <<Addio, mio caro Ferrero; se avessi danaro di manderei una cambiale di 180 luigi, e ti sconsigliare di venire a dividere le mie oscure fatiche nobilitate dal sentimento che mi anima, dalla causa a cui le consacro. Credimi il tuo affezionatissimo compagno d’armi ed amico, Santorre Santarosa>>[10]. Fu così che per Ferrero ebbe inizio una sorta di esilio <<nella remota America>>, così come scrisse Angelo Brofferio, esilio che sarebbe durato ben ventitré anni. Divenuto agente di una Azienda mineraria francese, Vittorio Ferrero si trasferì, infatti, in Perù, Paese ove avrebbe provveduto all’acquisito di giacimenti minerari, ma anche di vendere armi e offrire qualunque servizio a quel Governo. Il 19 agosto del 1824 è attestato in Lima, città ove ebbe l’alto onore di incontrare il condottiero Simón Bolívar, noto come “El Libertador”. In tale circostanza, Bolivar lo accolse <<amabilmente>>, ritenendolo un campione della libertà italiana, della quale era un fautore, peraltro molto aggiornato riguardo ai vari eventi[11]. Tre giorni dopo, il suo aiutante, l’ufficiale Wilson consegnò a Ferrero, da parte di Bolivar, la Medaglia del Congresso Nazionale: una straordinaria attestazione di stima. Successivamente svolse lo stesso compito in Messico, ove rimase sino al 1843, per conto della “The Mexican Company”, Società che lo invia nelle miniere di Oajaca, con il compito di organizzare il trasporto del minerale estratto fino a Veracruz. Si tratterà di un incarico molto delicato e rischioso, in quanto al Ferrero spettò il compito di difendere, a capo di una Squadra armata, le carovane di muli, carichi di oro e argento, dalle numerose bande di ladroni che infestano la zona. Vittorio Ferrero si scontrerà spesso con queste bande con elevato coraggio e determinazione, tanto da diventare ben presto famoso, ma soprattutto una sorta di spauracchio per i vari malintenzionati.

Quattro anni dopo, tornato a Londra, conobbe la futura moglie, Caterina Dawson Mac Cormac, vedova di un membro del Parlamento inglese. Si sposa ma, poco dopo il matrimonio decise di tornare in America Latina, onde occuparsi dell’amministrazione delle miniere in Zacatecas (Messico). In seguito riprese lo stesso lavoro che  aveva già svolto a Oajaca. Nel 1843 lo troviamo a Durango, sempre in Messico, impiegato in attività di commercio e di speculazioni. L’anno seguente, Vittorio Ferrero tornò nella Capitale inglese, con la speranza di abbracciare la moglie e la figlia, Domenica Caterina, nata dopo la sua partenza. Qui, purtroppo, scoprì che sia la moglie che la figlia erano scomparse. Il maturo ex ufficiale Piemontese non si diede per perso. Scrisse a parenti ed amici comuni, fece addirittura pubblicare avvisi di ricerca sui giornali. Tempo dopo, da tale Robertson, Capitano di nave, venne a sapere che sua moglie i era imbarcata da sola alla volta di Sidney, nel 1835. A quel punto il poveretto si dovette rassegnare all’idea che sia la moglie che la figlia fossero morte entrambi. Vittorio Ferrero ebbe la possibilità di rientrare in Piemonte il 20 maggio del 1846, approfittando di un’amnistia generale concessa sin dal 1842 a tutti gli esuli. Lasciata ancora una volta Torino, il Ferrero raggiunse Londa nel mese di giugno del 1847, dovendo sistemare alcune faccende commerciali con il suo socio, certo don Leon Ortigoza. A seguito dello scoppio della 1^ Guerra d’Indipendenza, nel 1848, ormai sessantatreenne, il Ferrero, tornato definitivamente dall’Inghilterra, offrì la sua spada al Ministro della Guerra, volendo seguire da volontario le Truppe regie. Al rifiuto di tale autorità, l’anziano Ten. Colonnello a riposto, deluso e amareggiato decise di lasciare definitivamente Torino. La sua vita ebbe, quindi, fine nel Canavese, esattamente a Leinì (Torino) il 2 maggio del 1853, data in cui il grande Eroe si spense nella cascina detta “Delle Basse”, ereditata dal cugino, l’Avv. Enrico Ferrero. Uomo di grande generosità e di nobilissimo animo lasciò gran parte dei suoi beni per la realizzazione dell’asilo infantile di Leinì, lo stesso che ancora oggi ne porta orgogliosamente il nome. La salma dell’Eroe di San Salvario fu sepolta presso il cimitero locale. In quella triste circostanza, l’avvocato e letterato Carlo Beolchi, deputato di Arona della Sinistra, un vecchio amico e compagno di gioventù che con Vittorio Ferrero aveva preso parte alla rivoluzione del ’21, esiliato anch’egli, volle dettarne la seguente iscrizione funebre:

 

Qui sepolto giace

Vittorio Ferrero

Morto à 2 di maggio 1853

Senti la voce che sorge dalla fossa?

L’aria d’intorno

Freme amor di patria e libertà

Passeggiere

Se nol sai, questo è il letto d’un eroe

L’eroe di San Salvario

Il monumento al Capitano Ferrero

Analoga attestazione non fu, invece, concepita sul monumento (un obelisco di granito) eretto il 29 settembre del 1873 in largo Marconi, a Torino, ove il suo nome non venne inserito. In esso si legge soltanto che in quel luogo <<…l’11 marzo 1821 fu giurata la libertà d’Italia; il 20 settembre 1870 il voto fu sciolto in Roma>>. A rendere giustizia al grande Patriota piemontese fu la Stessa Amministrazione Comunale di Leynì (oggi Leinì), la quale, agli inizi di ottobre del 1891 inaugurò, nell’ambito della piazza Vittorio Emanuele, ai piedi del Municipio, un monumento in suo onore. L’opera, un busto in bronzo che ne riporta l’effige in uniforme della Legione Reale Leggera, montata su un obelisco in marmo, fu realizzata dallo scultore Torinese Alessandro Casetti[12].

In quel sito vi rimase fino a quando fu spostata nella piazza che ancor oggi la ospita e che all’epoca era denominata piazza della Rivoluzione Fascista, per poi essere ribattezzata per l’appunto Piazza Vittorio Ferrero. Il monumento fu posto al centro dell’area verde (usata, come parco giochi e come spazio per accogliere la Festa degli alberi), a pochi passi dall’asilo che lo stesso Ferrero, come abbiamo già ricordato, volle far costruire lasciando tutti i suoi averi al Comune di Leinì. Osserviamo, a conclusione del presente saggio, come la vita del Colonnello Vittorio Ferrero sia stata particolarmente affascinante ed avventurosa, quasi simile a quella di quel Generale Giuseppe Garibaldi che, qualche tempo dopo (in realtà dal 1859, 2^ guerra d’indipendenza al 1867, campagna dell’agro romano), avrebbe avuto tra le fila dei suoi volontari non pochi Soldati-Finanzieri, portando a compimento, in quel fatidico 17 marzo 1861, quel desiderio di libertà e di unità nazionale che così tante pene, sangue e privazioni aveva causato al martoriato Popolo Italiano.

Ten. Col. Gerardo Severino
Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza

[1] Cfr. Martirologio della Libertà Italiana. Gloria e sventure. Ricordi storici. Strenna per l’anno 1853, Genova, Tipografia Botto, 1852, pag. 11.

[2] Sull’argomento vgs. Carlo Bonis, Il Colonnello Vittorio Ferrero. L’eroe di San Salvario, 11 marzo 1821, Torino, Vincenzo Bona Editore, 1887, pag. 13; Carlo Beolchi, Vittorio Ferrero e il fatto di San Salvario nel 1821, Torino, Tipografia del Progresso, 1853, ed ancora Carlo Beolchi, Il fatto di S. Salvario: l’11 marzo 1821, colla biografia del Capitano Vittorio Ferrero, Torino, Camilla e Bertolero, 1873.

[3] Cfr. Sante Laria, Le Fiamme Gialle nella Monarchia di Savoia – 1774 – 1821, Milano, Edizione Luigi Alfieri, 1937, pag. 155.

[4] Si trova tra via Nizza e l’angolo corso Marconi dove un obelisco ricorda il fatto dell’11 marzo 1821.

[5] Cfr. Sentenza di condanna del Senato di Genova in data 10 maggio 1822 contro Simondi Michele e altri tre Forieri della Legione Reale Leggiera, riportata in Storia della Rivoluzione Piemontese del 1821 del Conte di Santarosa, Torino, 1850, pagg. 271-274.

[6] L’8 aprile 1821 a Novara le truppe Costituzionaliste (4.000 uomini) si trovano a fronteggiare l’esercito legittimista (8.000 e gli austriaci (15.000 uomini), che Carlo Felice aveva chiamato a soccorso del Piemonte. Nel corso della battaglia caddero circa 300 uomini tra morti e feriti.

[7] Vgs. Carlo Bonis, op. cit., pag. 10. Aggiungiamo che il Bonis raccolse in questo testo le relazioni che aveva precedentemente presentato in due separate conferenze, tenutesi rispettivamente il 15 agosto 1886 presso le Scuole Comunali di Leynì e presso la Società “La Filotecnica” di Torino, il 3 dicembre dello stesso anno.

[8] Si precisa che alcune delle importanti notizie biografiche sul conto di Vittorio Ferrero sono state attinte dall’ottimo lavoro di Christian Ciatel dal titolo “Vittorio Ferrero, chi era costui?”, pubblicato on line nel sito “Ricordi Leinicesi”, sebbene lo stesso autore abbia pure lui fatto riferimento agli importanti contributi storici dell’Avv. Carlo Beolchi.

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[9] Cfr. Atto Vannucci, I Martiri della Libertà Italiana dal 1794 al 1848, Milano, L. Bartolotti e C. Tipografi Editori, 1877, pagg. 88 e 89.

[10] Cfr. I Miei tempi, Memorie di Angelo Brofferio, Vol. XII, Torino, Tipografia Nazionale G. Bracardi, 1860, pag. 132.

[11] Cfr. Carlo Bonis, op. cit. agg. 18 e 19, nonché Richard Konetzke, Herman Kellenbenz, Anuario de Historia del estado, la economia y la sociedad en America Latina, 1976, pag. 219.

[12] Cfr. Corrispondenza dal titolo Leynì a Vittorio Ferrero, in <<Gazzetta Piemontese>>, n. del 5-6 giugno 1891.