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Dalla Grecia a Castellabate. Un brindisi con il vino ellenico

Mi sono occupato più volte di Castellabate, il paese dove sono nato ed al quale sono e sarò sempre legato. L’ho fatto proponendo alcune inedite e incredibili vicende storiche, molto spesso sconosciute anche alla mia gente, ma sicuramente molto importanti, nel quadro della storia generale d’Italia. Ciò è dovuto ad un solo fattore: la felice posizione geografica di Castellabate, incastonata nella parte meridionale del Golfo di Salerno, il quale termina a Punta Licosa, da millenni luogo di transito e di rifugio per le marinerie che hanno solcato il Tirreno. Castellabate e il suo comprensorio è, dunque, al pari di altre incantevoli località del Cilento, un luogo baciato dalla storia, quella con la “S” maiuscola, crocevia di popoli e culture millenarie, come evidenzierò a breve. Il suo vanto maggiore non può, tuttavia, che rivolgersi al periodo della “Magna Grecia”, i cui fasti sono tutt’oggi documentati dalla vicina città di Elea, ma soprattutto di Paestum, fondata proprio dai greci col nome di Poseidonia. E furono proprio i greci che, fra le tante tradizioni e colture portate dalla loro terra, introdussero, in quasi tutto l’odierno Cilento costiero, vitigni di elevato prestigio, un vero e proprio “Nettare degli Dei”, dai quali si produce un vino molto forte in termini alcolometrici, da secoli chiamato localmente “Ellenico”, ma che per chi è del mestiere altri non è che uno dei tanti prestigiosi “Aglianici” prodotti nel nostro Meridione. Quella che segue è, quindi, la storia di questa millenaria produzione, ma anche commercializzazione, grazie alla quale Castellabate avrebbe esportato le sue botti in varie località del Pianeta: dalla Terra Santa, ai tempi delle Crociate, alle tavole dei Paesi più lontani, quali l’America, sia quella del Nord che Latina, un tempo con la propria flotta mercantile, oggi con rapidi aerei cargo.

Castellabate e il suo rapporto con la Magna Grecia

Per chi è rimasto fermo al solo messaggio pubblicitario lasciatoci dalla fortuna saga cinematografica di “Benvenuti al  Sud”, Castellabate è molto di più di un bellissimo set. Essa è, per nostra fortuna, anche e soprattutto il luogo della storia e delle leggende storiche, le quali sono state rese famose soprattutto grazie all’Odissea, con la struggente vicenda che Omero dedicò alla Sirena Leucosia. Si sa di certo che nei territori che oggi danno vita al Comune di Castellabate si sono insediati, nei millenni andati, diverse popolazioni, la più remota delle quali fu quella degli Enotri, i quali occuparono la fascia costiera dell’odierno Cilento attorno al VIII secolo a.C., quindi prima della colonizzazione greca. Si trattò, tuttavia, di pochi sparuti gruppi, a differenza di quanto avvenne con l’arrivo in aera dei greci trezeni. Questi, costretti a fuggire da Sibari, nel V secolo a.C., vi fondarono, sul Monte Tresino, la città di Trezene, della quale sono rimaste scarsissime tracce archeologiche, oggi purtroppo nascoste da sterpaglie.

Castellabate anni Cinquanta con tracce dei secolari vitigni di Ellenico

I greci, che a Nord di Castellabate, fondarono Poseidonia, occuparono tutta l’area costiera, soprattutto quella parte meridionale del Golfo di Salerno, di cui parlavo prima, ove avrebbero fondato la città di Leucosia o Leukothèa, poi spazzata via da un maremoto (almeno secondo alcune fonti storiche), tant’è che ancora oggi poco a largo dell’isoletta di Licosa si possono osservare i resti di quella millenaria civiltà. Non solo, ma sembrerebbe che proprio da tale toponimo potrebbe derivare il nome di quella stessa popolazione di stirpe italica, che nel IV secolo a.C., abitò la costa tra Poseidonia ed Elea, passata alla storia col nome di Leucanoi, e in seguito Lucani. Fu, quindi, al tempo dei Romani che trovò piede definitivamente il termine “Lucania”, intesa come regione dell’Impero, al quale il Cilento avrebbe legato la propria esistenza nei secoli a venire, come ricordò il grande storico Domenico Ventimiglia[1]. I Romani, per i quali la cultura del vino era essenziale, tanto da curarne il commercio con tutte le Terre da loro, allora, conosciute, mantennero per fortuna la coltivazione dei vitigni greci, favoriti, questi, dalla straordinaria posizione climatica propria del Cilento, dai cui porti, come quello di San Marco di Castellabate, migliaia di anfore avrebbero varcato i confini del tempo e dello spazio. Dobbiamo, quindi, agli stessi Romani se oggi ne possiamo parlare, ma soprattutto il piacere di degustare quel fantastico prodotto chiamato “vino Ellenico”.

Quel nettare per gli Dei dell’antica Grecia

Ebbene proseguo la narrazione col dire che i Greci, a differenza di quanto si è sempre ritenuto, furono i primi ad utilizzare i c.d. “cozzi terrazzati” (lgs. “colline rese coltivabili con il sistema a terrazzamento, vale a dire livellazione dei terreni in pendenza, grazie alla realizzazione di muri a secco, quasi fossero delle enormi scale) per la coltivazione delle viti, dalle quali si sarebbero prodotti, anche nei secoli successivi, degli ottimi vini rossi, del tipo “vernaccia” o “aglianico” (altrimenti definito localmente “Ellenico”). La produzione di tale vino non ha mai subito soste temporali, tant’è vero che, anche grazie ai frati naviganti della SS Badia di Cava dei Tirreni, proprio tale squisita bevanda avrebbe reso celebre Castellabate persino in Terra Santa. Il vino rosso di Castellabate e di Licosa, anche se non prodotto a livello industriale, come lo intendiamo noi oggi, avrebbe, poi, ricevuto consensi ben più ampi nel corso del Seicento, come evidenzia Giuseppe Cirillo, documentando i traffici marittimi gestiti allora dagli amalfitani.

Le fertili colline di Castellabate in una cartolina del secondo dopoguerra

Lo storico ci ricorda, infatti, che attorno al 1679 un tale Antonio Trabucco di Cava risulta intermediario di due partite, una di vino rosso di Castellabate e l’altra di cerchi di botte. Una destinata alla capitale e l’altra per “extra Regno”, in quanto probabilmente diretta a Marsiglia, stimate in 10 once ognuna[2]. Al di là di quanto scrisse il Giustiniani nel 1797, che lo definì <<di eccellente qualità>>[3], numerosi sono stati nel tempo i riferimenti alla produzione vinicola che si praticava nella nostra area geografica, primo fra tutti il famoso “Dizionario Corografico” di Amato Amati, che nel 1868 evidenzio: <<Il suo territorio è fertile e produttivo di vini squisiti>>[4]. Analoga considerazione fu riportata nel “Vocabolario Geografico-Storico-Statistico” del Muzzi, edito nel 1873, il quale pose in evidenza anche il non trascurabile risvolto commerciale, che tale produzione vinicola aveva comportato a favore della Comunità di Castellabate[5]. Un decisivo incremento a tale fabbricazione si ebbe soprattutto grazie al commercio che ne avrebbe fatto il Principe di Belmonte, il feudatario del borgo, che fra l’altro poteva contare su un’enorme superfice agricola, un vero e proprio latifondo che abbracciava più aree del Comune di Castellabate. La sua azienda risulta essere annoverata fra i principali “produttori” (anche di olio) della Provincia di Salerno ancora nel 1894, opportunamente citata nel noto <<Annuario d’Italia>>, unitamente alle ditte che facevano capo a Giuseppe De Angelis, Germano Florio, Luigi Matarazzo, Domenico Meriglia e Gerardo Perrotti[6].

La punta di Licosa prima della costruzione del molo – Anni Settanta

All’apice di tale sua attività, attorno agli anni ’40 del Novecento, una nota rivista agraria pubblicizzava la produzione dell’azienda Belmonte, citandone i suoi celebri “Rosso” e “Licosa”, definiti per l’appunto “…del Principe di Belmonte”[7]. La produzione elevata di pregevoli vini autoctoni del Cilento, nell’incrementare i traffici mercantili marittimi, aveva agevolato la nascita di piccole aziende vinicole locali, le quali preferirono commerciare in proprio, piuttosto che cedere i loro prodotti a grossisti. È il caso delle aziende di famiglie facenti capo ai prima citati  Giuseppe De Angelis, Germano Florio, Luigi Matarazzo, Cav. Gerardo Perrotti, le quali, unitamente allo stesso Principe di Belmonte, furono elencate – era il 1903 – fra le principali aziende operanti in tale settore, nell’ambito del Circondario di Vallo della Lucania[8]. Anche per tale ragione, la stessa Castellabate si era trasformata in un vero e proprio “emporio mercantile”, dai cui scali marittimi partivano, fra i vari prodotti della terra, dirette principalmente verso le lontane Americhe, forti quantitativi di vino pregiato[9].

Tresino e la spiaggia del Lago di Castellabate in una cartolina del 1961

Da un Bollettino del 1905 apprendiamo, infatti, che in tale anno il Comune del Cilento viene censito come uno dei più importante fra i <<centri di produzione e di esportazione>> dei vini, esportando <<296 ettolitri di vino, dei quali 200 diretti a San Paolo [del Brasile], 80 a Castellammare di Stabia e 16 a Napoli>>[10]. Le partite di vino destinate in Brasile partivano sì dalla Stazione Marittima di Santa Maria di Castellabate, ma alla volta del porto di Napoli, dal quale, poi, a bordo di mercantili molto più consistenti raggiungevano il porto di Santos, come ci riferisce un rapporto stilato in data 17 marzo 1906 da G. Caputi, Direttore della Cattedra ambulante di viticoltura ed enologia di Salerno[11]. Esattamente trent’anni dopo, nel 1933, le aziende vinicole facevano, invece, capo a vecchi e nuovi produttori, quali il Barone Pasquale Perrotti, all’Avv. Domenico Forziati, al Cav. Francesco Paolo Jaquinto, ai F.lli Matarazzo, ai F.lli Comenale e ad Isidoro Perrotti[12]. Due anni prima, invece, la celebre “Guida Gastronomica d’Italia” diffuse in tutto il Paese la pubblicità del nostro vino, ricordando che: <<A Castellabate Cilento si fa un vino liquoroso, tipo Malaga, di sapor dolce ed assai profumato, con circa 16° di alcool, che si conserva in bottiglia e di usa per fin di tavola>>[13].

Isola e Punta Licosa, ove termina a Sud il Golfo di Salerno

Dal noto “Annuario Vinicolo d’Italia”, più precisamente nell’edizione del 1938, apprendiamo che alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nell’ambito del Comune di Castellabate, ove fra l’altro si coltivava anche il prelibato “Passito di Gioi”, venivano pubblicizzati i seguenti produttori: Ing. Vincenzo Matarazzo, il Principe di Belmonte, Bartolomeo Comenale, Giuseppe Perrotti, Domenico Forziati, Ing. Nicola Coccoli, i F.lli Iacquinto, il Comm. Andrea Matarazzo, i F.lli Perrotti, il Gr. Uff.le Dott. Giovan Battista Forziati, il Dott. Cav. Domenico Tata, il Conte Nicola Matarazzo, la famiglia Giammarano e l’Avv. Carlo De Angelis[14]. I vini di Castellabate, e più precisamente quelli prodotti nelle campagne e sui “cozzi” di Licosa, non c’è che dire, furono celebrati sia sulle tavole di mezzo mondo che nei testi e nelle riviste specializzate, ove furono spesso lamentati taluni aspetti che solo molti decenni dopo sarebbero stati rivalutati da abili enologi. In un resoconto pubblicato nel secondo dopoguerra notiamo, infatti, che: <<Nell’estremo lembo sud-orientale della provincia, verso la Punta Licosa, si produce materia prima, ad alta gradazione zuccherina, che sarebbe ottima per la preparazione dei passiti, mentre viene, attualmente, trasformata in vini comuni>>[15].

I vitigni di Ellenico in Santa Maria fotografati dalla collina di Castellabate

Ma, oltre alle critiche, in quello stesso contesto storico se ne elogiano anche le caratteristiche chimiche, tant’è vero che negli “Annali…” agrari di quel tempo si legge: <<I vini dell’isola di Ischia e di Lipari contengono più cloruri rispetto ai vini dell’isola di Capri. Nei vini del litorale marino di Trano e di S. Maria di Castellabate la quantità di cloruri è modesta…>>[16]. I tenimenti agricoli di Licosa – non lo avevamo ancora ricordato – proprio grazie alla loro formidabile fertilità, avevano decretato, oltre a quella dei Belmonte, anche la fortuna economica dei Baroni Perrotti, di Santa Maria, i quali, il 16 agosto 1840 (con decreto reale n. 6525), avevano ottenuto l’alienazione di ben sei tomola di terreno demaniale, disposta allora in favore del barone D. Tommaso, per un canone annuo netto di ducati sei. Non solo, ma era stato proprio grazie a loro che si era giunti, dopo i fasti dell’antica Leucosia, alla trasformazione di Licosa in un vero e proprio villaggio di contadini e pescatori. Nella “Corografia dell’Italia”, edita nel 1834, Giovan Battista Rampaldi ricordava, infatti, che Licosa: <<È abitata da circa 300 persone. Poiché è ubertosa di quasi ogni sorta di piante fruttifere. La sua circonferenza è poco più di un miglio>>. Licosa e Castellabate tutta avrebbero continuato a produrre l’Ellenico e altri vini anche dopo la Seconda guerra mondiale, ma purtroppo non più per esportarli in giro per il mondo, come era successo sino al 1940. Il blocco della navigazione mercantile, avvenuto per fini militari, aveva condannato per sempre quella millenaria tradizione. La coltivazione dell’ellenico è per fortuna, ancora oggi, una bellissima realtà di Castellabate, e questo solo grazie a coraggiose Aziende vinicole, che molto spesso troviamo presenti nei più rinomati eventi culturali e gastronomici legati al Made in Italy.

Col. (a) GdF Gerardo Severino
Storico Militare

[1] Vgs. Domenico Ventimiglia, Notizie storiche del Castello dell’Abbate e de’ suoi casali nella Lucania raccolte e pubblicate da Domenico Ventimiglia, Napoli, presso la vedova di Reale e figli, 1827.

[2] Cfr., Giuseppe Cirillo, “Traffici amalfitani nel Mediterraneo moderno: merci e flussi commerciali”, in “I Rapporti diplomatici e scambi commerciali nel Mediterraneo Moderno. Atti del convegno internazionale di Studi, Fisciano – Università degli Studi di Salerno, 23-24 ottobre 2002” (a cura di Mirella Mafrici), Rubettino Editore – Soveria Mannelli, anno 2004, pag. 226.

[3] Cfr., Lorenzo Giustiniani, “Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli”, Tomo III, Edizione Vincenzo Manfredi – Napoli, anno 1797, pag. 329.

[4] Cfr., Amato Amati, op. cit., pag. 82.

[5] Cfr., Salvatore Muzzi, op. cit., pag. 116.

[6]Cfr. “Annuario d’Italia. Calendario Generale del Regno – Edizione 1894”, Stabilimento Bontempelli – Roma, anno 1894, pag. 1924.

[7] Tratto da “La Rivista di tecnica agraria”, Stabilimento Italgraf – Roma, anno 1941, pag. 138.

[8] Cfr. Edoardo Ottavi e Arturo Marescalchi, “Vade-Mecum del commerciante di uve e di vini”, Edizione G. Cassone – Casale Monferrato, anno 1903, pag. 250.

[9] Cfr. Gerardo Severino, “Da Napoli a Buenos Aires: l’esportazione del vino cilentano in Argentina a cavallo di due secoli”, in www.infocilento.it, 14 settembre 2021.

[10] Cfr. “Commercio vinario della provincia di Salerno nel mese di giugno 1905”, in <<Bollettino Ufficiale del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio – 1905>>, Tipografia Nazionale di G. Bertero, Roma, 1905, pag. 345.

[11] Cfr. “Il commercio vinario della provincia di Salerno durante la prima quindicina di febbraio 1906”, in <<Bollettino Ufficiale del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio>>, fascicolo 8, 19 aprile 1906, pagg. 758 e 759.

[12]Cfr. “Annuario Generale d’Italia 1933”, Vol. II, Stabilimento Tipografico G.B. Marsano – Genova, anno 1933, pag. 2039.

[13] Cfr. Touring Club d’Italia, “Guida Gastronomica d’Italia”, Milano, 1931, p. 388.

[14] Cfr. “Annuario Vinicolo d’Italia”, Edizione Unione Italiana Vini – Milano, anno 1938, pag. 526.

[15] Cfr. “Industrie Agrarie nel Mezzogiorno”, Edizione SVIMEZ – Roma, anno 1953, pag. 242.

[16] Cfr. “Annali della Facoltà di agraria della di Portici dell’Università di Napoli”, Edizione Della Torre – Napoli, anno 1947, pag. 24.