Fronte di carta. I giornalisti italiani e la Seconda guerra mondiale
In trincea, in volo e a bordo delle navi grigie per raccontare la Seconda guerra mondiale. Inviati, corrispondenti e cronisti in trincea con penna e taccuino per raccontare i conflitti, da quello italo-turco del 1911 fino all’Ucraina e al Medio Oriente. Un “fronte di carta” dove sono stati impegnati “giornalisti militari e militari giornalisti” oggetto di una ricerca, presentata il 20 giugno nella sede dell’ANRP, che diventerà una pubblicazione. Professori universitari, ricercatori e giornalisti, ma anche esperti in storia militare collegati online hanno seguito la conferenza su un tema poco approfondito sul rapporto tra giornalismo e seconda guerra mondiale. Un momento che si è aperto con il saluto di Guido D’Ubaldo, Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, che ha plaudito all’iniziativa e ricordato un percorso formativo su “storia e giornalismo” insieme all’ANRP prossimamente. Luciano Zani, vice presidente dell’ANRP, ha portato i saluti di Nicola Mattoscio, Presidente dell’ANRP, prima di passare la parola a Giampiero Spirito, Presidente della Fondazione Murialdi, il quale ha sottolineato “l’importanza di approfondire una tematica sulla scia proprio di Paolo Murialdi” che dal 1941 al 1943 fu Alpino per poi l’8 settembre 1943 decidere di entrare in una formazione partigiana delle Brigate Garibaldi.
“Percorrendo il Museo Vite di IMI, la Biblioteca e il Centro Studi sono ancora più convinto che la memoria non va solo custodita ma soprattutto tramandata. Non basta il ricordo: occorre trasmetterlo – ha detto Spirito -. Paolo Murialdi ha avuto la capacità di restituirci la fotografia di quegli anni attraverso il suo libro La traversata, come d’altronde fa pure Giovannino Guareschi con il suo Diario Clandestino 1943-1945. Egisto Corradi nel libro La ritirata di Russia racconta del tragico ripiegamento dell’ARMIR in quanto fu protagonista di quei tragici momenti e lo stesso fa Vittorio Vialli, di cui qui al Museo se ne ricorda la figura ma soprattutto l’azione e il coraggio di rischiare la vita per divulgare e far conoscere il dramma dei lager. Non una, ma più di 400 foto clandestine come Internato Militare Italiano scattate all’interno dei vari campi di prigionia in Polonia e in Germania”.

“Il tema del rapporto tra stampa ed esercito ha come sfondo una realtà, quella della guerra, che lungi dall’essere relegata a un tempo antico, ha nutrito le cronache fino agli ultimi decenni, sopravvivendo alla fine della guerra fredda e ritrovando una crescente centralità nelle scelte politiche ed economiche del potere e nell’impegno intellettuale e culturale di diversi attori. Il racconto delle guerre è stato sin dall’epoca moderna intimamente connesso con lo sviluppo della stampa e delle tecnologie a esso connesse: eventi come le guerre napoleoniche, la guerra di Crimea, il conflitto franco-prussiano, la Comune di Parigi, i massacri dei turchi contro i bulgari, la rivolta dei Boxer, le guerre coloniali e, non ultimo, il conflitto russo-giapponese fecero emergere nuovi modi di raccontare le battaglie e la morte, sempre più densi di descrizioni realistiche tese a colpire l’immaginazione dei lettori – ha detto lo storico Enrico Serventi Longhi, docente all’Università di Messina -. Lo sviluppo poderoso della stampa quotidiana nella belle époque portava con sé la crescente consapevolezza del ruolo del giornalismo non solo come osservatore e narratore neutrale di fatti ed eventi, quanto anche come protagonista del discorso politico. Intimamente connesso con la modernità, il giornalismo di faceva interprete, anticipava talvolta, spesso indirizzava le scelte politiche e militari”. Soprattutto in Italia il punto di svolta relativo al rapporto tra giornalismo ed esercito è rappresentato dalla prima guerra mondiale. Lì il racconto restò delimitato dal controllo dei militari e inquadrato in un progetto di propaganda. “Il primo dopoguerra fu un periodo di riflusso del fascino della guerra, ma l’impresa fiumana traghettò, attraverso la stagione della guerra civile in Italia, l’idea del giornalismo come milizia, raccolta e istituzionalizzata dal fascismo, uscito indenne dallo scontro giornalistico del delitto Matteotti – ha aggiunto Serventi Longhi -. Così il giornalismo di guerra fascista, che da coloniale si faceva imperiale, ebbe il primo il primo vero collaudo nella guerra d’Etiopia, laddove un ruolo fondamentale ebbero i propri giornalisti-combattenti. Corroborata dall’offensiva antisemita e rivoluzionaria, passando per l’epopea dei legionari nella Guerra di Spagna, una schiera di giornalisti di varia estrazione approdava all’immane tragedia della seconda guerra mondiale presentandosi come avanguardia del trionfo del fascismo”. Il nostro lavoro, ha poi concluso lo storico Serventi Longhi “intende quindi indagare il ruolo dei giornalisti-combattenti nelle varie armi e degli inviati nei teatri di guerra, al fine di riflettere sulla guerra-mondo come momento di trasformazione, di presa di coscienza e di scelta deontologica e civile, specie di fronte ai rovesci bellici e alle conseguenze dell’8 settembre 1943”.

Per Jacopo Sciglio, ricercatore dell’Università di Messina “questo contributo ha l’obiettivo di analizzare i rapporti tra i giornalisti e il regime fascista negli anni della Seconda guerra mondiale e l’influenza da essa esercitata su tali relazioni, sulla base di un campione di analisi di 14 individui, focalizzato principalmente sui giornalisti inviati al fronte e i giornalisti militari: Giorgio Almirante, Dino Buzzati, Egisto Corradi, Odoardo Focherini, Vittorio Gorresio, Giovannino Guareschi, Curzio Malaparte, Enzio Malatesta, Enrico Mattei, Enrico Meille, Paolo Monelli, Mario Soldati, Orio Vergani, Vittorio Vialli”. A parte alcuni, ha proseguito Sciglio “come Odoardo Focherini, già in disaccordo con il regime a seguito delle leggi razziali e che prendiamo in esame come esempio di giornalista-soldato sui generis, ovvero milite della fede e della solidarietà tra le genti, all’alba del conflitto i giornalisti, anche quelli che svolgevano il ruolo di inviato di guerra, si mostravano allineati con il regime, seppur con sfaccettature differenti. Tuttavia, una serie di eventi, quali il progressivo infittirsi della censura, che rese sostanzialmente impossibile l’esercizio della professione; le sconfitte militari e l’8 settembre, portavano la maggior parte dei soggetti analizzati a disallinearsi progressivamente dal regime e, in molti casi, a opporsi alla sua controfigura di Salò”. Senza voler essere esaustivi, ha sottolineato il ricercatore “si citano qui i casi di Paolo Monelli, che dopo aver contributo anche alla campagna antisemita entrava in conflitto con il suo direttore, Borrelli, a causa della censura, e Curzio Malaparte, inviato prima in Grecia, dove scrisse principalmente per instillare negli italiani un sentimento di risentimento nei confronti dei greci, non ottemperando completamente alla sua missione, e poi in Russia, da dove scrisse senza fare mistero della capacità di resistenza dei sovietici, facendo infuriare sia il Minculpop che il comando tedesco. Tra gli internati emergeva, invece, la figura di Giovannino Guareschi, il quale dopo aver fondato negli anni Trenta il settimanale Bertoldo, caratterizzandosi per un umorismo eterodosso, fu richiamato alle armi nel ’42. Deportato come IMI dopo l’8 settembre, fedele ai suoi ideali monarchici decise di non collaborare con i tedeschi o arruolarsi nella Rsi, divenendo anzi un punto di riferimento dell’altra Resistenza”.
Naturalmente, ha concluso Sciglio “vi era anche una parte affatto trascurabile della professione che decideva di aderire alla Rsi: il campione prende in esame un esempio di chi lo fece per seria convinzione politica come Giorgio Almirante, che continuò assiduamente nel suo lavoro di giornalista e divenne anche capogabinetto del Ministero presieduto da Mezzasoma, e chi optò per la collaborazione con il regime saloino per esigenze di carattere lavorativo come Dino Buzzati, il quale dopo una breve fase “temporeggiatrice”, tornò al “Corriere della Sera” con articoli che risuonarono comunque in perfetta linea alle nuove direttive del regime”.
Vincenzo Grienti, giornalista e saggista, già autore di diverse pubblicazioni sul rapporto giornalismo e Seconda guerra mondiale ha messo in evidenza “la storia del giornalismo italiano è ricca di cronisti che dalla fine dell’Ottocento ad oggi si occupano di storia dell’aeronautica. In particolare, il periodo che va dai primi anni del Novecento fino ai due conflitti mondiali, registra l’incremento di articoli, di periodici e di riviste dedicate al mondo dell’aviazione”. Le imprese compiute con i palloni aerostatici, passando per i dirigibili, fino al volo umano con il “più pesante dell’aria”, hanno alimentato racconti e reportage di cronisti e “inviati sul posto”. Gli operatori dell’informazione sono stati chiamati, con gli strumenti e con i mezzi che avevano a disposizione, di scrivere, fotografare e poi filmare quel che accadeva attorno all’industria aeronautica, agli eventi sportivi, alle attività sperimentali di volo e alle operazioni belliche.
“C’era una forte esigenza di raccontare il conflitto su tutti i fronti: terra, mare e cielo – ha sottolineato Grienti che ha condotto numerose ricerche presso gli uffici storici delle forze armate -. Nomi, date, avvenimenti, mobilitazione e arruolamento emergono dagli Archivi, a partire dall’Archivio Centrale dello Stato – ha detto il giornalista -. Personalmente ho effettuato delle ricerche sia negli archivi pubblici ma anche private ed emerge una varietà di documenti e informazioni. I corrispondenti di Guerra e gli operatori foto-cinematografici dovettero combattere con tre nemici: il piombo del nemico vero e proprio, la censura del regime, le difficoltà logistiche”.
Gli inviati di guerra, i corrispondenti navali, I giornalisti aeronautici si trovano a raccontare battaglie, storie, episodi di salvataggi e lo fanno non solo pubblicando articoli sui quoitidiani più prestigiosi, dal Corriere della Sera a La Stampa, al Giornale d’Italia. Lo fanno anche per I periodici, I settimanali come La Domenica del Corriere, Ali di Guerra, ma soprattutto nei periodici specializzati. Il ministero della Guerra doveva dunque fornire al Ministero della Cultura Popolare la maggiore diffusione e propaganda possibile. Non solo attraverso la scrittura, ma anche tramite la fotografia, I disegni, I cinegiornali, I fumetti. Solo per citarne alcuni Cesco Tomaselli, Dino Buzzati, Carlo Jovine (Giornale d’Italia), Arturo Pianca, Raffaello Guzman (Il Messaggero), Pietro Caporilli

Enzo Romeo, già caporedattore del Tg2 e vaticanista, ha sottolineato il ruolo degli inviati e le loro difficoltà a raccontare le guerre di oggi, in Ucraina e in Medio Oriente. La disinformazione, le fake news, che ci sono sempre state, oggi con i social network e le nuove tecnologie si amplificano. Romeo non ha mancato di ricordare anche Antoine de Saint-Exupery, giornalista ed aviatore, il quale prese parte alla guerra di Spagna del 1936. Anche se frequentatore del fronte repubblicano, Antoine de Saint Exupéry non prende posizione per uno dei due schieramenti; per lui contano l’uomo e la sua coscienza, l’uomo e il suo dramma, individuale prima e collettivo poi. E anche nella guerra è in grado di focalizzare quel qualcosa che unisce e non ciò che divide: il dramma del singolo assume così una valenza tale da trasformarsi in dolore universale. Cinque sono gli articoli di questo primo volo tra le nuvole verso la guerra, con accanto il suo compagno di viaggio André Prévot. Concetti ovvi, espressi e descritti in tutte le loro sfaccettature, ora con speranza ora con disperazione, ma sempre attraverso una composizione poetica che si trasforma in un vero e proprio racconto d’amore scritto col sangue e che diventa la disperata ricerca di speranza tra le macerie e ancora la ricerca di quella luce che possa rendere fittizia quella devastazione che si apre davanti ai suoi occhi, dove tutto è morto e tutto avviene in silenzio, in un’inspiegabile guerra contro se stessi.
Le conclusioni sono state tracciate da Giancarlo Tartaglia, Segretario generale della Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi” ha ricordato come la stampa e la professione giornalistica in Italia a partire dal 1938 era regolata da una serie di normative e prassi che riflettevano il contesto storico e politico dell’epoca, caratterizzato dal regime fascista. Le leggi e i regolamenti cercavano di controllare l’attività giornalistica, limitando la libertà di stampa e orientando l’informazione verso gli interessi del regime. Una “nazionalizzazione” che nonostante i colpi della censura riuscì in alcuni casi ad avere una reazione proiettandosi negli anni che vanno dal 1943 al 1945, durante la guerra di Liberazione.
Giulio Marsili