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4 novembre 1918. Riletture, l’aviazione italiana e la Grande Guerra. L’intervista al generale Di Martino

L’AVIAZIONE ITALIANA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE
INTERVISTA AL GEN. BASILIO DI MARTINO
di Vincenzo Grienti

Si ripropone l’intervista del febbraio 2014, pubblicata su inStoria, a uno dei più importanti e preparati storici di aviazione militare: il Generale Ispettore Capo Basilio Di Martino.   

Il Gen. Ispettore Capo Basilio Di Martino, Direttore della Direzione degli Armamenti Aeronautici e per l’Aeronavigabilitá

La prima guerra mondiale sotto il profilo di tattica militare è stata soprattutto una guerra di “posizione”, di “attesa” in trincea. È stato però un momento fondamentale nella storia dell’aeronautica militare creando le premesse per gli sviluppi successivi e in particolare per la sua trasformazione in forza armata indipendente. Su questo e altri aspetti della forza aerea del nostro Paese abbiamo intervistato il Generale Basilio Di Martino,  fine storico della prima guerra mondiale e autore di numerose pubblicazioni tra le quali “L’Aviazione italiana a Caporetto” (Gaspari Editore), e “L’aviazione italiana nella Grande Guerra” (Ugo Mursia Editore).

Generale, qual era la situazione dell’aviazione italiana nel 1914? Cosa cambiò con l’entrata in guerra?

Allo scoppio della Grande Guerra i regolamenti in vigore vedevano nel velivolo soprattutto una più efficace alternativa alla cavalleria nell’attività di ricognizione in uno scenario di guerra di movimento. Le operazioni dell’estate del 1914 sembrarono confermare queste previsioni ma quando il fronte si cristallizzò e si aprì la lunga stagione della guerra di trincea, i comandi cominciarono a fare affidamento sul velivolo per una continua attività di sorveglianza sulle prime linee, finalizzata a costruire una dettagliata planimetria delle posizioni avversarie e per guidare l’azione dell’artiglieria, risolvendo il problema del tiro indiretto in cui il bersaglio non era visibile agli osservatori a terra.

Nell’agosto del 1914 il Regio Esercito disponeva di 8 squadriglie mobili, montate su monoplani Nieuport e Blériot, e 3 squadriglie da posizione, con biplani Farman MF1912. Prima della fine dell’anno fu però avviato un programma di potenziamento che prevedeva la sostituzione di queste macchine con altre più avanzate, prodotte su licenza, come il Voisin e il Farman MF 1914, o di concezione nazionale, come il Macchi Parasol e soprattutto il trimotore Caproni.

Caproni in volo su Venezia (foto Ufficio Storico Aeronautica Militare)

Il r.d. n.11 del 7 gennaio 1915 creò il Corpo Aeronautico Militare, distinto dall’Arma del Genio che aveva fino ad allora inquadrato i “servizi aeronautici”, e strutturato in Direzione Generale d’Aeronautica, inserita nel Ministero della Guerra, Comando Dirigibilisti, Comando Aviatori e Istituto Centrale Aeronautico. La direzione generale era un organo tecnico-amministrativo che provvedeva alla gestione del personale e del materiale, l’istituto era un organo di studio, ricerca e sperimentazione, i due comandi erano organi tecnico-operativi con competenze che includevano l’addestramento e la logistica.

Il 23 maggio 1915, all’atto della dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria, nell’ambito del Comando Supremo fu costituito un Ufficio Servizi Aeronautici e le squadriglie disponibili furono proiettate verso l’Isonzo, in parte a disposizione dei comandi d’armata. I 75 velivoli in linea erano monoplani Blériot XI e Nieuport IV M, con qualche biplano Farman MF 1912. La carenza di medi e grossi calibri, che avrebbe condizionato il Regio Esercito fino al 1916, era resa più grave dall’impossibilità di sfruttare al meglio quelli disponibili per la difficoltà nel localizzare gli elementi dell’organizzazione difensiva avversaria. In questa situazione il potenziamento del servizio d’artiglieria era una priorità assoluta e nel corso dell’estate fu perseguito con decisione inviando al fronte squadriglie specializzate nell’osservazione del tiro montate su macchine affidabili e collaudate come il Caudron G.3, attrezzando una rete di collegamenti bordo-terra che utilizzava la radiotelegrafia, con stazioni trasmittenti di bordo e stazioni riceventi di terra distribuite lungo il fronte, e lavorando infine per superare la diffidenza degli artiglieri affinando le procedure e curando l’addestramento. Anche se per le comunicazioni terra-bordo si dovevano utilizzare ancora i teli da segnalazione, la radiotelegrafia rappresentò un significativo salto di qualità per il servizio d’artiglieria. Nel contempo il sempre più ampio ricorso alla fotografia aerea permetteva di costruire un dettagliata planimetria delle posizioni avversarie.

Cioè?

Mentre i monoplani venivano ritirati dal servizio di prima linea non potendo più fornire prestazioni adeguate, e una squadriglia di Farman MF1914 schierata ad Asiago estendeva l’impiego del velivolo al fronte trentino, il 20 agosto entravano in azione i primi due trimotori Caproni Ca.1, con motori FIAT A.10 da 100 cv, bombardando il campo di aviazione di Aisovizza in risposta a un’incursione su Udine. Per difendere la città, sede del Comando Supremo e importante centro logistico, venne poi attivata a Santa Caterina una prima quadriglia da caccia equipaggiata con il biplano biposto Nieuport Ni.10, presto sostituito dal monoposto Ni.11. Con il potenziamento della ricognizione, l’entrata in linea del trimotore Caproni e la creazione di un embrionale reparto da caccia, alla fine del 1915 l’aviazione italiana poteva ormai dirsi costituita in tutte le sue componenti fondamentali. I mesi a venire avrebbero visto il progressivo aggiornamento del parco macchine e un consistente incremento del numero delle squadriglie. Nell’ottobre del 1917 l’ordine di battaglia avrebbe visto 66 squadriglie e 1 sezione per le esigenze dei fronti italiano, albanese e macedone, 3 squadriglie e 1 sezione in Libia, 4 squadriglie e 14 sezioni adibite alla difesa aerea del territorio nazionale, per un totale di 650 velivoli dei quali 570 sul fronte italiano.

Qual era il punto di forza dell’aviazione italiana durante la Prima Guerra Mondiale?

È difficile individuare un singolo punto di forza. Il passare dei mesi vede infatti delinearsi uno strumento aereo ben bilanciato e nel 1917 la numerosa componente da ricognizione ed osservazione, essenziale in una guerra di posizione, era sostenuta da una valida componente da caccia in rapido sviluppo ed affiancata da una componente da bombardamento che, per quanto mai troppo numerosa, aveva dimostrato di poter colpire in profondità nel territorio avversario. Era uno strumento aereo che dall’estate del 1916 aveva ormai la superiorità aerea sull’avversario in termini quantitativi, qualitativi e anche organizzativi, superiorità aerea che non avrebbe più perso se non per poche settimane nell’autunno del 1917, come conseguenza della crisi determinata dallo sfondamento di Caporetto e dell’arrivo sul fronte italiano di alcune agguerrite squadriglie tedesche. Se si dovesse però individuare una peculiarità dell’aviazione italiana, la si potrebbe vedere nella componente da bombardamento: con il trimotore Caproni l’Italia fu infatti la prima Nazione dell’Intesa a mettere in campo un vero bombardiere, impiegandolo poi alla luce di un concreto pragmatismo.

Quale fu il ruolo dei caccia e quali risultati furono conseguiti attraverso l’azione dei bombardieri finalizzata a contrastare le capacità operative delle forze nemiche?

Come nel caso delle altre aviazioni belligeranti, la specialità della caccia nasce a conflitto iniziato, quando si rende necessario da un lato contrastare il passo ai ricognitori avversari, dall’altro garantire libertà d’azione ai propri. Non si deve infatti dimenticare che il ruolo affidato inizialmente all’aviazione, e quello che ne avrebbe sempre assorbito la percentuale maggiore dello sforzo, è quello della ricognizione, ivi inclusa l’importante specializzazione dell’osservazione del tiro. Anche nel caso della caccia velivoli e concetti d’impiego furono oggetto di un prepotente sviluppo che, nel caso italiano, avrebbe sfruttato al meglio le possibilità consentite dalla produzione su licenza di macchine di concezione francese come i Nieuport e gli Hanriot, alle quali si sarebbe aggiunto lo SPAD, acquistato in Francia in numeri significativi, per conquistare e mantenere un buon livello di superiorità aerea.

Dal punto di vista dell’impiego è degno di nota che alle crociere di sbarramento tipiche del 1916 e del 1917, in sostanza dei pendolamenti lungo la linea del fronte, si affiancò e si sostituì nella seconda parte del conflitto un pattugliamento aggressivo spesso proiettato oltre la linea del fronte, per imporre tempi e modi del combattimento all’avversario. La caccia ebbe poi sempre più spesso il compito di scortare i bombardieri Caproni, un ruolo per il quale si cercò continuamente di affinare le procedure, scontrandosi però con il problema della mancanza di un efficace sistema di comunicazione tra i velivoli,dal momento che non esistevano ancora apparati radio idonei per questo scopo. Quanto ai bombardieri, il loro impiego, centralizzato alle dirette dipendenze dell’organo di vertice dell’aviazione, e quindi del Comando Supremo, fu finalizzato soprattutto ad attaccare i terminali ferroviari e i centri logistici dell’avversario e a colpirne i campi di aviazione per concorrere al mantenimento della superiorità aerea.

Francesco Baracca, l’asso degli assi dell’aviazione italiana (foto Aeronautica Militare)

Oltre a questi compiti, che oggi inquadreremmo nelle categorie dell’interdizione e della controaviazione, vi fu anche un primo abbozzo di impiego “strategico” del velivolo da bombardamento, soprattutto con gli attacchi alla piazzaforte di Pola, principale base operativa della marina austro-ungarica, al silurificio di fiume e alla base navale di Cattaro. Gli effetti ottenuti, significativi sia in termini materiali che in termini morali, vanno valutati in funzione della tipologia di armamento disponibile (il carico di bombe di un bombardiere variava dai 200 ai 400 chilogrammi) e della novità rappresentata dagli attacchi aerei, il che enfatizzava il loro impatto a livello psicologico. Una riflessione conclusiva sull’evoluzione dell’aviazione da bombardamento durante la Grande Guerra non può non partire dalla considerazione che, se il prepotente sviluppo del mezzo aereo portò ad una rapida crescita delle aviazioni belligeranti, questa non poté prescindere dalle esigenze delle forze di superficie, esigenze che, se erano state strumentali nel favorire l’espansione delle specialità da ricognizione e da caccia, diventarono un freno per l’espansione della specialità da bombardamento.

Quali erano i rapporti tra le forze di superficie e l’aviazione e in che modo si può parlare di concorso aereo alle loro operazioni?

È il caso di premettere che l’aviazione italiana era articolata in due componenti: una, composta da squadriglie da ricognizione e da caccia, ripartita tra le armate che, a partire dal 1917, la impiegavano tramite i loro comandi di aeronautica a diretto supporto delle operazioni condotte dalle truppe in linea, l’altra, comprendente i reparti da bombardamento, qualche squadriglia da caccia e, sul finire del conflitto, anche un reparto da ricognizione, alle dirette dipendenze del Comando Supremo. Già da questa articolazione si può comprendere come vi fosse una forte integrazione con l’azione delle forze di terra, anche se la componente a disposizione del Comando Supremo fu di solito impiegata in modo piuttosto indipendente dalla situazione sul terreno, il che lasciava intendere l’opportunità di avere un’arma aerea in grado di sviluppare la sua azione su un piano diverso, meno “tattico” e più “strategico”. Anche in relazione al bombardamento però, non si può non rilevare come la scelta dei bersagli da battere fosse sempre fatta nel quadro di una visione organica dello sforzo complessivo richiesto al Regio Esercito ed in aderenza alla consistenza quantitativa e qualitativa della componente da bombardamento, mai più numerosa di qualche decina di trimotori, per la maggior parte del tipo Ca 3, con una potenza totale di 450 cv, ben lontana quindi nei numeri e nelle prestazioni da quanto sarebbe stato necessario per dare concretezza alle idee di quanti avrebbero voluto un impiego offensivo dell’arma aerea che andasse oltre i temi dell’interdizione e della controaviazione.

In questo quadro, nel corso del 1918, se il bombardamento dei campi d’aviazione da parte dei dirigibili e delle squadriglie Caproni puntava a ridurre l’operatività dell’aviazione nemica, gli attacchi ai terminali ferroviari trovavano giustificazione sia in chiave difensiva, per disturbare gli eventuali preparativi dell’avversario, che in chiave offensiva, per impedirgli il rafforzamento delle posizioni. Infine, lo sviluppo di una componente da bombardamento veloce non fu soltanto finalizzata a trovare un ruolo per una macchina dalle prestazioni di tutto rilievo come lo SVA, ma anche la naturale evoluzione di concetti di impiego che sempre più spesso vedevano le squadriglie da caccia e da ricognizione partecipare attivamente alla battaglia, con attacchi a bassa quota sulle vie di comunicazione, sulle zone di radunata e sulle postazioni d’artiglieria. Sulla base di queste considerazioni, tra il 1917 e il 1918 si può davvero parlare di strumento aeroterrestre.

E la Regia Marina? C’era un consistente numero di idrovolanti

Per quanto riguarda la Regia Marina, bisogna ricordare che questa disponeva di propri reparti di idrovolanti che, equipaggiati con macchine sempre più efficaci, a partire dal Macchi L.1, frutto di una riuscita operazione di “reverse engineering” ai danni di un idrovolante Lohner catturato intatto all’inizio delle ostilità, per arrivare all’idrocaccia Macchi M.5 del 1918, riuscì a ribaltare la situazione iniziale e ad imporsi all’avversario. L’aviazione navale, che in prospettiva avrebbe dovuto disporre anche di una componente da bombardamento montata su velivoli terrestri, pur svolgendo con efficacia compiti di pattugliamento e sorveglianza delle rotte, non sviluppò però metodi e procedure per una efficace cooperazione con la flotta nel corso delle poche azioni navali che si svolsero in Adriatico. Non si può quindi parlare di un vero strumento aeronavale, anche se negli ultimi tempi delle ostilità si cominciarono a compiere i primi passi in questa direzione.

Quali velivoli furono impiegati per la ricognizione ma anche per l’attacco al suolo?

In linea di massima per la ricognizione, includendo sotto questa denominazione anche il servizio d’artiglieria con l’osservazione del tiro, furono impiegati inizialmente il Macchi Parasol, il Caudron G.3 e il Farman MF1914. Il Macchi Parasol, penalizzato da una certa instabilità, uscì di scena già nel 1915, gli altri due, entrambi di concezione francese e costruiti su licenza, rimasero in linea fino al 1917, quando si puntò su macchine di concezione nazionale. Il Savoia-Pomilio, che riprendeva la formula a trave di coda del Farman, non diede buona prova, anche perché questa configurazione era troppo vulnerabile agli attacchi in coda, più successo ebbero macchine a fusoliera come il Pomilio, nonostante una certa fragilità strutturale a cui fu necessario porre rimedio, e soprattutto il SAML, che non a caso sarebbe rimasto a lungo in servizio anche nel dopoguerra. Un fallimento totale fu invece il SIA7b, un velivolo a fusoliera le cui buone prestazioni furono vanificate da una irrimediabile debolezza strutturale che nel giugno del 1918 ne impose la radiazione dopo l’ennesimo cedimento degli attacchi alari. Di contro fu una macchina di successo lo SVA, che grazie alla sua velocità e alla sua autonomia si dimostrò particolarmente adatto per le missioni di ricognizione a lungo raggio, venendo poi impiegato anche come bombardiere leggero. Per quel che riguarda l’attacco al suolo, tra il 1917 e il 1918 i ricognitori, che comunque potevano portare un piccolo carico di bombe oltre alle mitragliatrici, affiancarono sempre più spesso i caccia, come nelle battaglie del Piave del 1918, ottenendo buoni risultati.

In quale “fronte” aereo furono maggiormente impegnati italiani?

L’aviazione italiana operò nella quasi totalità sul fronte italo-austriaco, dove il Regio Esercito produsse lo sforzo principale, e soprattutto nel settore dell’Isonzo, da Tolmino al mare, fino al 1917, nel settore dell’Altopiano di Asiago, a partire dalla tarda primavera del 1916, e poi ovviamente nel settore Grappa-Piave, nell’ultimo anno di guerra. La presenza sugli altri fronti fu molto ridotta e su quelli albanese e macedone in particolare limitata a una piccola componente da ricognizione e da caccia funzionale alle esigenze dei contingenti del Regio Esercito che vi erano schierati. La presenza di una squadriglia Caproni in Albania non altera nella sostanza questo quadro, mentre è molto più significativo l’invio all’inizio del 1918 di un gruppo da bombardamento sul fronte francese, dove fu impiegato in attacchi notturni ai punti nodali delle comunicazioni ferroviarie dell’avversario nella Francia occupata.

La disfatta di Caporetto avvenne anche per l’aviazione?

Se la domanda allude a ciò che avrebbe potuto fare la ricognizione aerea per evitare la “sorpresa” è opportuno sottolineare che con la fine dell’estate il tempo peggiorò rapidamente e che per questa ragione, oltre che per le misure d’inganno messe abilmente in atto dall’avversario, i ricognitori non riuscirono a confermare le notizie relative a un’imminente offensiva. Se poi si passa a un’analisi delle operazioni aeree in quel periodo cruciale del conflitto è possibile distinguere diversi momenti. Nei giorni immediatamente successivi al 24 ottobre fu fatto il massimo sforzo per contenere l’urto avversario sviluppando una massiccia azione di interdizione con tutti i mezzi disponibili, accettando per questo di sostenere perdite elevate, poi, dopo il 27 ottobre, con la ritirata dell’esercito dietro la linea del Tagliamento, vennero schierati sui campi della Comina e di Aviano forti nuclei da bombardamento e da caccia per rallentare l’avanzata delle forze austro-tedesche nella pianura friulana con azioni di bombardamento e mitragliamento mirate soprattutto ai rifornimenti e ai rincalzi, e contrastare l’attività della loro aviazione con un intenso servizio di caccia e di crociera. In questo contesto l’aviazione austro-tedesca non sfruttò l’occasione di attaccare le colonne in ritirata, o meglio non ne ebbe la possibilità, e questo non solo per la presenza attiva della caccia italiana, ma anche per la crisi determinata dalla necessità di spostare in avanti il suo dispositivo. Dopo il 3 novembre, con il successivo ripiegamento sulla linea del Piave, le squadriglie da bombardamento continuarono a sviluppare un’azione di interdizione e quelle da caccia seguitarono a contrastare l’aviazione avversaria con buoni risultati nel servizio di crociera e in quello di allarme, mentre lo stesso non può dirsi per il servizio di scorta che soffriva di problemi di comunicazione e di coordinamento. Questi inconvenienti si fecero sentire soprattutto quando l’aviazione austro-tedesca, trasferite le sue squadriglie sui campi abbandonati da quella italiana, tornò a farsi aggressiva. L’aviazione italiana, nonostante il contributo di reparti da caccia e da ricognizione britannici e francesi, rimase sulla difensiva fino a dicembre inoltrato, quando l’iniziò della ripresa può essere fatto coincidere con la cosiddetta “battaglia di Istrana” del 26 dicembre, in cui i biposto tedeschi che avevano attaccato quel campo subirono una dura sconfitta, con 11 velivoli abbattuti dai cacciatori britannici e italiani.

Quale successo memorabile dell’aviazione italiana possiamo ricordare, oggi, a cento anni dalla Prima Guerra mondiale?

Anche se mi piace considerare quello dell’aviazione italiana come uno sforzo corale, articolato giorno dopo giorno in una sequenza interminabile di missioni di ricognizione di bombardamento e di caccia, ci sono senz’altro dei momenti che vale la pena di sottolineare, sia per il loro significato “tecnico”, che per l’impatto sull’immaginario collettivo. Al riguardo si possono ricordare il raid su Lubiana del 18 febbraio 1916, prima azione in profondità nel territorio avversario dei bombardieri Caproni ed anche primo incontro con la caccia avversaria, in cui Oreste Salomone guadagnò all’aviazione italiana la prima medaglia d’oro al valor militare riportando entro le linee il velivolo crivellato di colpi con i corpi senza vita dei suoi due compagni, la prima vittoria aerea di Francesco Baracca, ottenuta il 7 aprile del 1916 nel cielo di Medeuzza, che fu la prima vittoria della caccia italiana e segnò il momento in cui gli aviatori italiano si avviarono alla conquista della superiorità aerea, le incursioni su Pola e su Cattaro dell’estate e dell’autunno del 1917, il contributo determinante dato dalle squadriglie da caccia e da ricognizione al successo difensivo del Regio Esercito sul Piave nel giugno del 1918, e il raid di D’Annunzio su Vienna, perfetto esempio di operazione di guerra psicologica che non è un’impresa isolata ma si inquadra a pieno titolo in quella vasta campagna di propaganda sul nemico avvista all’inizio dell’estate del 1918 e condotta in primo luogo con il lancio di manifestini nelle diverse lingue della Duplice Monarchia.

Se volessimo ricordare alcuni piloti che hanno brillato per valore militare, per spirito di corpo, ma anche per i rischi presi al fine di raggiungere un obiettivo, quali nomi potremmo fare?

L’elenco degli aviatori, perché parlare soltanto di piloti è riduttivo, che si distinsero nel corso del conflitto è molto lungo e qualche nome è già stato citato. Vorrei ricordare ancora quelli di Natale Palli, l’asso della ricognizione, protagonista con lo SVA di missioni memorabili nelle lontane retrovie austro-ungariche, pilota di D’Annunzio nel volo su Vienna e poi comandante dell’87Squadriglia, di Luigi Gori e Maurizio Pagliano, due piloti di Caproni che presero parte a ripetute azioni su Pola e sul fronte dell’Isonzo prima di cadere in combattimento sul finire del 1917, di Ernesto La Polla, ufficiale di prim’ordine con una lucida visione dei problemi dell’impiego del velivolo da bombardamento e comandante del Raggruppamento Squadriglie da Bombardamento, di Silvio Scaroni, eccezionale pilota da caccia la cui fama è stata forse offuscata dall’astro di Baracca. L’elenco potrebbe essere molto più lungo, ma ciò che forse più conta è che furono le loro azioni quotidiane, e quelle dei loro compagni di reparto, a far sì che si consolidasse quella “competenza ambientale” destinata a trovare la sua più compiuta manifestazione di lì qualche anno, con la nascita della Regia Aeronautica come forza armata indipendente.

Quale capitolo delle battaglie affrontate in cielo dalla nostra aviazione durante il conflitto 1914-1918 occorre ricordare?

La scelta è ardua e se mi è consentito vorrei ricordarne due: la Battaglia del Solstizio, del giugno del 1918, quando le squadriglie italiane diedero una dimostrazione di impiego razionale del potere aereo, riconquistando immediatamente il controllo del cielo della battaglia per poi passare a sviluppare un’efficace azione di interdizione sulle vie di alimentazione delle forze avversarie passate sulla sponda destra del Piave, e il bombardamento della base navale di Cattaro, nella notte del 4 ottobre 1917, che al di là dei risultati materiali fu una dimostrazione di capacità organizzativa e di capacità aviatoria.

Leggi anche la pagina web del sito dell’Aeronautica Militare dedicata alla Grande Guerra