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18 dicembre 1916: termina la battaglia di Verdun

Il nome in codice dell’operazione era Gericht (“giudizio”) e fu la sola grande offensiva tedesca combattuta tra la prima battaglia della Marna del 1914 e l’ultimo attacco del generale Erich Ludendorff nella primavera del 1918.

La città di Verdun, nota già ai tempi di Roma con il nome di Virodunum, era un importante campo fortificato organizzato per sbarrare il passo alle popolazioni germaniche. Nel 1916 Verdun era una cittadina tranquilla, considerata inattaccabile dai comandi francesi, che videro le fortezze intorno alla città resistere efficacemente all’assedio dell’armata del Kronprinz Guglielmo di Hohenzollern durante l’attacco sulla Marna del 1914.

Da ogni lato Verdun era circondata da ripide colline lambite dalla Mosa, presidiate da numerosi forti – nelle carte topografiche tedesche del 1914 erano segnati non meno di venti forti maggiori e quaranta di media importanza (Ouvrages in francese) – che avrebbero impedito grazie a un efficace tiro incrociato qualunque avanzata nemica (A. Horne, Il prezzo della Gloria, Verdun 1916, Milano, BUR, 2003, p. 17)

Inoltre, dalla fine dei primi scontri nel settore, Verdun fu munita di una serie di profonde trincee protettive, lunghe dai 4 ai 5 chilometri; tecnicamente la città era il punto più forte dell’intero fronte francese (ibidem, p. 18). In pratica si sarebbe rivelato uno dei più deboli. Questo perché la piazzaforte fu privata quasi completamente dei suoi pezzi d’artiglieria, che furono tolti per essere adoperati al fronte, in quanto dopo aver verificato la grave carenza di bocche da fuoco nelle offensive del 1915, i francesi decisero di attingere anche alle artiglierie collocate nei forti di Verdun (R.de Thomasson, Les preliminaires de Verdun, Nancy, 1921)

Il 14 febbraio 1916, vigilia della battaglia, l’imperatore Guglielmo II  davanti ai soldati proclamò: “Io Guglielmo dichiaro che la Germania è costretta all’offensiva. Il popolo vuole la pace, ma per raggiungerla bisogna chiudere la guerra con una battaglia decisiva. È a Verdun, cuore della Francia, che voi coglierete il frutto delle vostre fatiche”. Non fu così!

Per dare l’idea di cosa fu Verdun basta rileggere le parole di un soldato di fanteria pubblicate nel 1935: “Era un diluvio di proiettili di enorme calibro (…). Il tiro non rallentava, è stata una corsa pazzesca attraverso il terreno sconvolto. Camminavamo su persone morte, scavalcavamo i feriti, ogni buco ci riservava la sua sinistra sorpresa: qui era un asfissiato, che moriva allungando le braccia nel vuoto per cercare sollievo, lì un corpo decapitato (…). I sopravvissuti riuscirono a raggiungere le postazioni arretrate ridotti allo stato di fantasmi vecchi e grinzosi, irriconoscibili” (H. Bouvard, La gloire de Verdun, Paris, 1935).

Fu una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il fronte occidentale della prima guerra mondiale. Ebbe inizio il 21 febbraio 1916 e terminò il 19 dicembre dello stesso anno. Più di un milione tra morti, feriti e dispersi. Con la battaglia della Somme è l’altra grande battaglia della Grande guerra. Alcuni esperti di storia militare hanno definito Verdun un “tritacarne” per via del massacro di soldati che avvenne in 11 mesi di combattimenti. Tra Francia e Germania la piazzaforte di Verdun fu un braccio di ferro, sinonimo di forza, ma anche di eroismo e di sofferenza. Verdun detiene probabilmente primato, poco invidiabile, di essere stato il campo di battaglia con la maggior densità di morti per metro quadro. Alcuni l’hanno anche definita, paragonandola al secondo conflitto mondiale, alla battaglia di Stalingrado. A Verdun lo scopo dell’offensiva tedesca fu quello di “dissanguare goccia a goccia” l’esercito francese. Nei piani del capo di stato maggiore generale tedesco, l’importanza morale e propagandistica di un attacco a Verdun avrebbe fatto in modo che tutto lo sforzo francese si riversasse nella difesa di un caposaldo ritenuto di primaria importanza per la Francia. Lo scopo era quello di convogliare il maggior numero di truppe nemiche in un solo settore, per poi colpirlo con la massima potenza possibile con il violento impiego di artiglieria, in modo da infliggergli il maggior numero di perdite possibile.

Sul Corriere della Sera del 19 maggio 1916 il dispaccio ufficiale dell’Agenzia Stefani faceva comprendere l’andazzo di una battaglia faticosa ed estenuante: “Dopo tre giorni di calma i tedeschi hanno tentato invano a parecchie riprese di impadronirsi del fortino detto del bosco di Avocourt ed hanno poi lanciato alla fine della giornata un attacco con grossi effettivi contro le posizioni del bosco di Avocourt e della quota 304. I tiri di interdizione anno arrestato dovunque lo slancio, facendo nelle file considerevoli vuoti. In totale si tratta di due sanguinosi insuccessi di più per il nemico”. Il bollettino di guerra poi proseguiva così: “Da parte nostra, un felice colpo di mano ci ha permesso di allargare le posizioni a nord della quota 287 durante un combattimento accanito che ci ha reso padroni di un blockhaus nemico saldamente organizzato sul pendio settentrionale della quota 304. Così i tedeschi, non avendo potuto pervenire fino a Verdun con un assalto diretto, si sforzano sempre di progredire sulla riva sinistra per minacciare le nostre comunicazioni e prendere di fianco e poi di rovescio le posizioni della riva destra. La costanza del loro insuccesso, malgrado l’accanimento degli attacchi, ci permette di ritenere con sicurezza che i loro tentativi non saranno più fortunati nell’avvenire” (Stefani, Parigi – 10 maggio matt. 1916)

Nei lunghi mesi della battaglia non mancarono capovolgimenti di fronte dall’una e dall’altra parte, anche se i tedeschi perdevano terreno. Il 31 agosto del 1916 la notizia del “congedo” di von Falkenhayn, capo dello stato maggiore. Lo stesso Guglielmo II inviò una lettera in cui gli conferiva “La Croce della stella del Gran Cordone dell’ordine della Casa reale con spade” e lo salutava così.

Era il preludio dell’epilogo di un conflitto dove la prima sconfitta era stata dell’uomo.

Vincenzo Grienti