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La guerra negli abissi. I sommergibili della Regia Marina: vittorie e sconfitte dal 1940 al 1943

Introduzione

Era il maggio 1954 quando veniva pubblicato “La Guerra negli Abissi”, il fascicolo n.10 della collana “Testimonianze” diretta dal corrispondente di guerra Pietro Caporilli. Una monografia tra le più interessanti tra quelle edite dalla Edizioni Ardita di Roma perché approfondiva a distanza di undici anni dall’armistizio dell’8 settembre 1943 il grande impegno dei sommergibili della Regia Marina durante il secondo conflitto mondiale. L’attività dei sottomarini italiani fu intensa e insidiosa. All’elenco degli affondamenti perpetrati ai danni degli Alleati, in particolare battelli inglesi, seguì anche la triste lista dei sommergibili perduti: dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943 furono affondati o distrutti 87 sottomarini, 5mila caduti tra ufficiali e marinai e 16 medaglie d’oro attribuite. I periscopi non andarono più in immersione per via dell’art. 59 del Dettato di Pace che stabiliva come “nessun sottomarino o altro naviglio sommergibile potrà essere costruito, acquistato, utilizzato, sperimentato dall’Italia”. Gli equipaggi operarono nel Mar Mediterraneo, nel Mar Rosso e nel Golfo Persico e nell’Oceano Atlantico.

Le operazioni nel Mar Mediterraneo

Uno dei primi successi messi a segno dai sommergibili italiani è rendicontato dal Bollettino di guerra n. 1 dove si legge: ”Nel Mediterraneo nostri sommergibili hanno silurato un incrociatore ed una petroliera di 10.000 tonnellate”. L’azione descritta era stata condotta dal capitano di corvetta Tosoni-Pittoni al comando del Bagnolini che silurò nel Mediterraneo orientale l’incrociatore Calypso. A queste si aggiunse anche l’affondamento di due petroliere nello stesso specchio di mare, ma anche di un cacciatorpediniere francese fino alla sconfitta del quadrimotore inglese Sunderland a conclusione di un avventuroso duello con il sommergibile Sirena che registrò addirittura la presenza del comandante dell’unità Raul Galletti alla mitragliatrice di prora.

Questi ed altri episodi molto spesso non furono rilanciati dalla propaganda fascista né dai cinegiornali dell’epoca. Solo dai bollettini e dai corrispondenti di guerra dei giornali sottoposti alla censura del regime. Tuttavia, come scrive uno dei cronisti del tempo, Pietro Caporilli, in una rievocazione delle battaglie dei sommergibili nel Mediterraneo[1], tra le unità sottomarine da menzionare c’è senza dubbio il Pier Capponi e il suo equipaggio. A quel battello, scriveva Caporilli ”mi legano il ricordo e la fraterna amicizia col comandante Romeo Romei e col Secondo Alessandro Stea, sentimenti di vivo rimpianto per la loro oscura fine ad opera del sommergibile inglese Rosqual il mattino del 31 marzo 1941” al largo delle coste di Messina. Il capitano di corvetta Romeo Romei racconta il cronista era un italiano della Dalmazia, il tipo classico dei comandanti di un sommergibile: freddo, coraggio, decisione pronta, aggressività spinta all’estremo limite. Non a caso nella motivazione della medaglia d’oro al valor militare alla memoria a un certo punto si legge: ”Precorrendo le teorie d’impiego successivamente adottate dai sommergibili, conduceva risolutamente in superficie l’attacco alla formazione…”.

Le vittorie navali del sommergibile “Pier Capponi”

La prima vittoria del Capponi fu contro un piroscafo armato di 10mila tonnellate. Dopo aver intimato al comandante dello scafo di arrestarsi il comandante Romei vide aprire il fuoco contro la sua unità costringendolo a ingaggiare un breve duello in superficie. La sfida si concluse con un siluro che parti dalla prua del Capponi per raggiungere l’obiettivo a centro nave. In pochi minuti il piroscafo si spezzò in due colando a picco sul fondo. Ma l’avventura più drammatica del Pier Capponi che fu scritta nella storia della guerra subacquea fu quella di Malta. Dopo un attacco a una intera formazione di grosse navi fortemente scortate il Capponi fu sottoposto a una serie di attacchi con bombe di profondità che, oltre a vari danneggiamenti allo scafo esterno e alle eliche, provocarono l’avaria della bussola giroscopica. Per tale ragione si trovò a riemergere nello specchio d’acqua antistante l’isolotto di Filfola sotto tiro dei cannoni piazzati a Marsa Scirocco. La situazione diventò ancora più complicata quando da dietro l’isolotto spuntò la prora di un cacciasommergibili inglese pronto a sbarrare la strada al Capponi. Nella drammaticità degli eventi e con estrema freddezza, il comandante Romei in piena emersione si fece scudo sulla sbiadita e vecchia bandiera posta “a riva” del battello, i cui colori dapprima furono scambiati per quelli francesi. Il cacciasommergibili inglese esitò e l’equipaggio, vedendo il comandante del sottomarino salutare col passamontagne, si affollò a prua per capire cosa stesse accadendo.  In questo frangente di tempo il tenente Alessandro Stea e il puntatore Bumbaca si lanciarono ai comandi delle mitragliere sparando una gran raffica e mietendo i marinai inglesi, comandante del cacciatorpediniere compreso. Il diversivo di Romei fu scoperto e le batterie costiere maltesi reagiscono. Il Capponi a quel punto lanciò i fumogeni cercando subito di fare una immersione rapida, ma una granata a poppa lacerò le lamiere dello scafo esterno mentre numerose schegge bucarono la torretta di comando sul lato sinistro riempendosi subito con otto tonnellate di acqua di mare.  La reazione nemica inglese si consolidò. Infatti con l’arrivo degli aerei e di altre unità anti-sommergibile la percentuale di immersione diventò quasi nulla. Lo scafo precipitò negli abissi e nel frangente di tempo il comandante Romei ordinò una manovra all’indietro per andarsi a posizionare a 102 metri di profondità proprio all’ingresso del porto de La Valletta. Qui il sommergibile italiano colpito  iniziò ad aspettare la notte per rimettersi in marcia e fuggire via. Tuttavia, la pressione dell’acqua marina e le conseguenti infiltrazioni misero in avaria tutto il circuito elettrico. Poi iniziarono i primi colpi di tosse da parte dei marinai. Un segnale inequivocabile: la presenza a bordo del peggior nemico per un sommergibile, ossia il cloro. Romei ordinò subito a l’equipaggio di indossare le maschere. Alle 21.30 entrarono in funzione le pompe per l’esaurimento centrale . Poi “aria all’emersione”, ma niente di fatto. L’aria compressa utile ad emergere non mise in movimento il sottomarino. Il manometro segnava ancora 102 metri. A questo punto a Romei e al suo equipaggio non restò di mettere in moto le eliche con i motori elettrici mentre contemporaneamente si rilasciò aria compressa. La situazione era tragica. A questo punto Romei si rivolse all’equipaggio: “A tutti locali: attenzione! Ragazzi, la situazione è disperata…abbiamo un solo tentativo e se fallisce sapete quale sorte ci attende. Se il destino dovrà compiersi la nostra coscienza di soldati è tranquilla. Noi abbiamo fatto tutto il nostro dovere”[2]. Poi una pausa di silenzio. Infine l’ordine: ”Timoni orizzontali a salire, motori elettrici avanti al minimo di giri, tutta l’aria all’emersione”.

Il Regio Sommergibile Tito Speri

La vita di quasi sessanta uomini di equipaggio era appesa a un filo. Poi il Capponi iniziò a muoversi dal fondo, ondeggiò e la lancetta del manometro iniziò a salire. Il colpo che dal punto di visto bellico rimase nella storia della Marina italiana e nel ruolino del Pier Capponi si registrò il 10 novembre 1940 intorno alle 23.54. La vedetta De Donno chiamò il comandante rilevando un numero notevole di naviglio in mare. Sia Romei che il comandante in seconda Stea saltarono giù dai seggiolini in postazione quando all’orizzonte a circa 10mila metri scorsero una formazione intera di unità britanniche guidate dalla portaerei Illustrius, da due corazzate da 30mila tonnellate appartenenti alla classe Remillies e da diversi incrociatori e cacciatorpedinieri. Davanti all’intera squadriglia navale inglese, il comandante Romeo Romei decise di attaccare. Il direttore di macchine Leognani spinse al massimo i motori termici di cui uno peraltro in avaria. Tutti gli uomini erano ai posti di combattimento mentre i siluristi erano tutti in postazione.

L’idea del comandante Romei era quella di posizionarsi al centro della formazione navale inglese, ma la velocità del Capponi era di gran lunga inferiore rispetto a quella delle unità della Royal Navy. Il sommergibile una giunto alla distanza utile per il lancio dei siluri si vide sfilare la portaerei senza potere farci nulla, ma rimanevano le due navi da battaglia. Così Romei con freddezza e precisione ordinò “fuori 3, 4, 1” di prua. I primi due furono diretta a proravia di una delle navi da battaglia mentre l’altro con tiro angolato. Questa azione viene ricordata nella motivazione che fece assegnare la medaglia d’oro all’equipaggio: “Portato a fondo l’attacco colpiva con due siluri una delle due navi da battaglia e con un terzo un’altra unità prendendo immersione soltanto dopo aver constatato l’avvenuto scoppio delle armi”.

Questo il bilancio eroico del Pier Capponi nei primi cinque mesi di guerra. Poi il dramma che il cronista Pietro Caporilli ricordò così in un articolo che rievocava le imprese dei sommergili italiani: ”Per uno di quei casi fortuiti e imponderabili di cui il destino talvolta si compiace, quel giorno Romei mi lasciò a terra. Si trattava di una breve missione dopo la quale l’equipaggio si sarebbe trasferito a Monfalcone per armare il nuovo incrociatore sommergibile  Ammiraglio Cagni per la guerra in Atlantico e dove io avrei dovuto raggiungerlo”. Invece nello specchio d’acqua a sud dello Stromboli il “Pier Capponi” e il suo equipaggio caddero inesorabilmente sotto i colpi del nemico.

Regio Sommergibili Da Vinci

Gli attacchi agli Alleati: la strategia sottomarina

Le basi dalle quali la squadra dei sommergibili della Regia Marina si muove per contrastare gli Alleati erano quelle di Napoli, Messina, Augusto, Taranto, Cagliari, La Spezia e Lero.

A sud furono memorabili le imprese del Delfino che affondò un cacciatorpediniere greco, il Dagabour, grazie alla tattica del capitano di corvetta Alberto Torri. In seguito verranno affondati anche due incrociatori inglesi della classe Southapton al largo delle coste egiziane. Il tenente di vascello Antonio Dotta invece affondò una intera formazione di quattro navi al comando del sommergibile Serpente mentre il Ruggero Settimo guidato dal capitano di corvetta Mario Spano silurò un cacciatorpediniere riuscendo a fuggire dalla reazione di altre tre unità inglesi.

Altro successo lo ottiene il comandante Giovannini con il G. Marconi in un agguato nei pressi dello stretto di Gibilterra mentre dall’altra parte del Mediterraneo il sottomarino Alagi del comandante Puccini infliggerà gravi perdite al traffico con Alessandria.

Tra le avventure memorabili e molto particolari è da ricordare quella del sommergibile Giada, al comando del tenente di vascello Cavallina che, dopo aver sostenuto un aspro combattimento in superficie con aerei nemici per l’impossibilità  di immergersi a causa di diverse avarie riuscì ad abbattere un quadrimotore Sunderland per poi effettuare le riparazioni in un porto neutrale dove sbarcò anche morti e feriti per poi far ritorno alla base sempre in superficie.

Un episodio unico nella storia militare navale fu quello del sommergibile Toti comandato da Bandino Bandini, che ingaggiò una sfida all’ultimo sangue con il sottomarino inglese Perseus  e lo affondò sparando fino a trenta metri col cannone e con le mitragliatrici per poi dargli il colpo di grazia con un siluro.

Non mancarono poi gli impegnativi attacchi portati in seno alle formazioni navali contro gli inglesi e i francesi. Il più importante fu quello della battaglia aeronavale della metà di agosto del 1942 in furono impiegate intere squadriglie che andarono all’attacco infliggendo grosse perdite al nemico: tre incrociatori, due cacciatorpediniere e tredici piroscafi oltre a varie altre unità messe fuori combattimento come la portaerei Furious centrata da due siluri di un sommergibile italiano.

La battaglia di Tunisia: successi e sconfitte. Le imprese dell’Iride, del Gondar e dello Sciré

Nella battaglia per la Tunisia ci fu un altro attacco di massa dei sottomarini italiani portando a casa un notevole successo. Se da una parte le vittorie messe assegno dalla Marina furono tante, dall’altra il tributo di mezzi e di vite umane fu notevole. In tutto i sommergibili distrutti furono sessantasei. Il primo della serie fu il battello del capitano di corvetta Ugo Botti col Provana il 17 giugno 1940 dopo aver assaltato un intero convoglio davanti a Orano venne speronato dalla cannoniera francese La Curieuse e affondato. Lo stesso nemico renderà omaggio al valore del capitano Botti. Il 20 giugno dello stesso anno fu la volta del comandante Parla al comando del Diamante, silurato dal sommergibile Parthian a nord di Tobruk. Poi l’unità sottomarina di nome Argonauta affondato da bombe di aereo e il Liuzzi affondato da due cacciatorpediniere inglesi Dainty e Ilex a sud di Creta.

In questa carrellata di perdite alle quali se ne aggiunsero a decine con l’avvicinarsi della fine della guerra, bisogna però ricordare tre unità che ebbero un ruolo fondamentale nella guerra sottomarina nel Mar Mediterraneo. Si tratta dei sommergibili Iride, Gondar e Scirè. Il primo fu impiegato per il trasporto di operatori e mezzi d’assalto e fu la base di appoggio per la progettata incursione nel porto di Alessandria, ma il 22 agosto del 1940 intorno alle 11.30 tre aerosiluranti piombarono nel golfo di Bomba mentre Iride stava uscendo in mare. Il sottomarino fu colpito da un siluro e spezzatosi in due si inabissò velocemente. Lo scafo si posò a quindici metri dal fondo e ciò permise di recuperare i superstiti. Il secondo sommergibile, il Gondar, ebbe lo stesso obiettivo del primo: la presa di Alessandria, ma fu anch’egli sfortunato perché proprio nelle vicinanze del porto fu sorpreso e sottoposto a un violento bombardamento subacqueo da due cacciatorpedinieri. Prima di inabissarsi fino a 155 metri riapparve in superficie al fine di consentire all’equipaggio di gettarsi in mare. I naufraghi non furono raccolti. Anzi sia i due cacciatorpedinieri che una corvetta spararono contro di loro. Il terzo, lo Sciré mise a segno una serie di successi al comando di Junio Valerio Borghese.

Il sommergibile Tuttavia la missione più famosa, per la quale il sommergibile passò alla storia, fu l’operazione «G.A. 3» contro la base di Alessandria D’Egitto, svoltasi nel dicembre 1941. Il sommergibile, dopo aver imbarcato a bordo tre siluri a lenta corsa, salpò il 3 dicembre da La Spezia e raggiunse Lero il 9 di quel mese. Quella di Alessandria D’Egitto fu la quarta missione, la più impegnativa e incisiva di un sottomarino italiano per il successo ottenuto. Prima però ce ne erano state altre.

Lo Sciré, al comando del capitano di corvetta Junio Valerio Borghese, che diventerà comandante della X MAS, compì infatti quattro importanti operazioni, ad esclusione della prima, quella del 29 settembre 1940 contro Gibilterra, che fu annullata da Supermarina quasi all’inizio delle operazioni. La missione venne ripresa e riprotetta il 30 ottobre del ’40 quando lo Sciré orientò la prua nuovamente su Gibilterra con a bordo ben tre “maiali” e altrettanti incursori subacquei. Tra questi il tenente di vascello Gino Birindelli e il secondo capo Damos Paccagnini; il tenente di vascello Luigi Durand De La Penne e il secondo capo Emilio Bianchi, il capitano del Genio navale Teseo Tesei e il sergente palombaro Alcide Pedretti. La missione, tuttavia, non ebbe successo a causa dell’inadeguatezza tecnica dei mezzi e lo scafo del capitano Borghese dovette rientrare a La Spezia dopo avere coperto 2.000 miglia marina e 40 ore di immersione prolungata. Dei sei incursori italiani, due, Birindelli e Paccagnini, furono catturati dagli inglesi mentre gli altri quattro fuggirono nuotando fino alla costa spagnola.

Nel maggio del 1941, lo Sciré tentò nuovamente di attaccare la munitissima Rocca inglese, ma anche questa missione non fu coronata da successo mentre la terza missione contro Gibilterra, quella del settembre del 1941, ebbe buon esito e si riuscì ad affondare la nave da trasporto Durham e una moto-cisterna militare. Nel corso di questa operazione, lo Sciré rimase una settimana in acque infestate da navi nemiche, in un raggio non superiore alle 50 miglia dalla base nemica. Come scrisse Borghese nelle sue memorie: “Si trattò di un impegno severo che ci costrinse ad attraversare lo Stretto due volte nell’arco di quattro giorni e persino ad affiorare ad appena due miglia dal porto nemico”.

La quarta missione portò lo Sciré nelle acque antistanti la base inglese di Alessandra d’Egitto riuscì in pieno. Nel dicembre del ’41 i tre “maiali” (veri e propri siluri a lenta corsa che venivano pilotati da due uomini. Erano lunghi 6,70 metri  e di 53 cm di diametro, dotati di motori elettrici e di una carica di esplosivo di 300 Kg contenuta nella testata del siluro. Questa si poteva staccare e applicare direttamente alla carena della nave o come in questo caso dallo Sciré). Pilotati rispettivamente da Luigi Durand De La Penne ed Emilio Bianchi, Antonio Marceglia e Spartaco Schergat, Vincenzo Martellotta e Mario Marino, riuscirono, dopo avere superato innumerevoli ostacoli, a minare e affondare le corazzate inglesi Valiant e Queen Elisabeth e una grossa petroliera da 16mila tonnellate. Al termine dell’operazione gli incursori e i palombari che avevano partecipato all’azione De La Penne, Bianchi, Martellotta e Marino furono catturati dagli inglesi, mentre Marceglia e Schergat riuscirono a riguadagnare il largo venendo recuperati dallo Sciré che li attendeva in un punto prefissato.

La quinta definitiva e fatale missione del sommergibile italiano può essere ripercorsa dal diario e dalle memorie di guerra dell’artigliere Arie Luba Eliav che ripercorre le vicende tra il 7 e il 15 agosto del 1942 quando lo Sciré del capitano Bruno Zelik, succeduto a Borghese l’8 marzo 1942, ebbe il compito di forzare le difese inglesi di Haifa in quella operazione che venne classificata SL-1 dove sarebbero stati impiegati dieci “uomini Gamma”. La missione per Haifa partì il 6 agosto 1942, le comunicazioni con il comando italiano furono affidate ai tedeschi e forse questo fu l’elemento che compromise tutto. Infatti, lo

Scirè fu una delle “vittime eccellenti” di Ultra Secret, il sistema di decrittazione a disposizione dei servizi segreti inglesi e che già aveva consentito loro di decifrare le comunicazioni di “”Enigma, la macchina utilizzata dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Dopo il 10 agosto lo Scirè non diede più notizie. Solo in seguito fu ricostruita la tragica ultima missione del sommergibile della Regia Marina. Alle 10.30 di quello stesso giorno il sommergibile fu intercettato da aerei inglesi e attaccato con bombe di profondità dalla corvetta Hms Islay. Esso subì grossi danneggiamenti ed emerso per evitare l’affondamento e la morte dell’equipaggio fu preda delle batterie costiere che lo colpirono alla torretta e alla prua. Ciò provocò il rapido inabissamento dell’unità senza che l’equipaggio potesse salvarsi[3].  Molto interessante al riguardo la testimonianza di un militare israeliano: “Quel giorno – scrive Arie Luba Eliav – ero servente al telemetro del mio pezzo quando vidi attraverso il binocolo tutta la scena. A non più di un miglio dall’imboccatura del porto scorsi quattro cacciatorpediniere inglesi compiere strane evoluzioni in circolo accompagnate dal lancio di numerose cariche di profondità. Compresi subito che le unità avevano intercettato un sommergibile nemico e che lo stavano costringendo all’emersione. All’improvviso, tra il frastuono delle esplosioni e le alte colonne d’acqua spumeggiante, vidi con chiarezza emergere, quasi verticalmente, lo scafo lungo e scuro dell’unità braccata. Ripiombato sulla pancia con un tonfo, l’unità nemica venne subito bersagliata dai cannoni e dalle mitragliere pesanti dei caccia che ne fecero scempio. Scosso dai colpi come un’animale ferito, il sommergibile fece uno strano balzo in avanti con la prora per poi adagiarsi su un fianco ed affondare rapidamente in un grande vortice. Solo il giorno seguente venni a sapere che, con ogni probabilità, l’unità affondata apparteneva alla Regia Marina Italiana”[4].

L’attività navale nel Mar Rosso

L’attività dei sommergibili italiani nel Mar Rosso è poco conosciuta in quanto il quadrante geografico più delicato, dunque, maggiormente attenzionato dai comandi navali delle forze in campo, restava il Mare Nostrum. Tuttavia le gesta compiute dai sottomarini italiani a più di 4mila chilometri dalla Patria venivano riportate dai Bollettini di guerra del tempo, perciò raccontati quasi come una fascinosa leggenda.

A Massaua era di stanza il Gruppo Sommergibili A.O.I[5]. operante in condizioni idrografiche davvero difficili: una temperatura torrida, grande umidità, freddo la notte. Inoltre la grande trasparenza del mare facilitava durante il giorno la vigilanza delle navi da superficie nemiche e soprattutto la ricognizione aerea. Fino ad alta profondità l’ombra di un sommergibile poteva essere individuata dall’alto e non sempre le grandi profondità potevano essere raggiunte dagli scafi a causa delle insidie determinate dagli scogli. La notte, poi, era alquanto pericolosa per via di agguati in superficie. Infatti, anche a notevole distanza era possibile scorgere in maniera nitida la fusoliera  del sottomarino per via della particolare fosforescenza che si veniva a formare attorno allo scafo. L’attività dei sommergibili italiani, nonostante queste difficoltà, riuscì a ostacolare il traffico proveniente dalle Indie verso l’Australia e a bloccare la libera navigazione.

Nel Mar Rosso, uno dei sommergibili più attivi fu il Guglielmotti al comando del Capitano di Corvetta Carlo Tucci. Ben nove furono le missioni di guerra infliggendo agli inglesi grosse perdite, compreso l’affondamento della petroliera Atlas di 8mila tonnellate.

L’eroico episodio dell’Smg Perla

Tuttavia non mancarono episodi degni di nota anche da parte di altri equipaggi e unità. Tra queste la vicenda eroica del sommergibile Perla guidato dal Capitano di corvetta Mario Pouchain. Questa unità si distinse per l’audace attacco a un cacciatorpediniere inglese che con grande intuizione sfruttando la sua manovrabilità evitò il siluro del Perla rispondendo con una raffica di fuoco contro il sottomarino italiano che si inabissò per sfuggire al fuoco britannico. Iniziò la caccia: il Perla in immersione mise in atto le strategie per eludere le ricerca della torpediniere che a sua volta fece uso di bombe di profondità. Una di queste sfiorò lo scafo del sommergibile. L’onda d’urto fece spegnere tutte le luci all’interno dell’unità. La corrente elettrica riprese a funzionare, ma qualcosa in quell’attacco danneggiò il battello, forse le eliche, forse il timone. L’Smg Perla torna faticosamente in superficie e, iniziando a navigare sotto costa, si rifugia tra le scogliere. Probabilmente dietro segnalazione della ricognizione aerea inglese, il giorno dopo un incrociatore corazzato britannico e due cacciatorpediniere intercettano il sommergibile della Regia Marina. I cacciatorpedinieri della Royal Navy aprirono il fuoco. A questo punto il comandante Pouchain ordine all’equipaggio di gettarsi in mare e raggiungere la costa. A bordo restarono solo gli ufficiali e l’armamento del cannone di prua pronto al tiro. Come se non bastasse iniziò ad aprire il fuoco anche l’incrociatore inglese. Il Perla rispose al fuoco , ma a un certo punto il cannone si inceppò. I marinai italiani tentarono di disincepparlo ma invano. Il comandante Pouchain, preoccupato per la vita dei propri uomini, ordina anche ai marinai di abbandonare il battello. Sullo scafo restarono solo l’ufficiale di rotta e il marinaio elettricista Forgiarini che si rifiutò di lasciare il sommergibile fino a quando a bordo rimaneva il suo comandante. Nelle fasi concitate della battaglia navale un granata scoppiò proprio accanto all’eroico marinaio uccidendolo. La raffica di fuoco delle tre unità inglesi però rallentò per via dell’arrivo dell’aviazione italiana. Ma l’impavida azione dell’equipaggio del Perla non finisce qui. In una cuccetta del quadrato ufficiali si trovava il tenente di vascello Simoncini, comandante in 2ª, il quale nonostante le esortazioni di tutto l’equipaggio a uscir via dalla scafo aveva detto: ”E’ inutile, per me è finita. Solo vorrei morire lassù, in plancia”.[6]  Il sommergibile italiano si salvò grazie all’intervento della Regia Aeronautica e poté rientrare alla propria base.

Una delle imprese sommergibilistiche maggiormente ricordate furono quelle del Galileo Ferraris guidato dal comandante Livio Piomarta, caduto poi al comando dell’Smg Marconi e Medaglia d’Oro al Valor Militare. Ne diede notizia il Bollettino n. 173 del Quartier Generale delle Forze Armate. Esso avvenne la mattina del 26 novembre 1940. Alle prime luci dell’alba alcune masse oscure si stagliavano all’orizzonte. Poco dopo alle lenti del binocolo di Piomarta cominciarono ad essere visibili alcuni alberi che presto diventarono una fitta selva e poi ancora le sopratrutture fino a quando una grossa formazione di piroscafi scortati da un nugolo di incrociatori leggeri e cacciatorpedinieri. Il comandante Piomarta con astuzia aspettò di cogliere il momento giusto per silurare al fianco il nemico. Infatti in un momento in cui uno dei cacciatorpedinieri lasciò alcune miglia marine di spazio evoluendo per adeguare la sua alta velocità alle sette miglia dei mercantili, Piomarta, calcolando l’angolo di mira con rapide accostate prese d’infilata tre piroscafi con tre siluri diversi. Una volta a segno il Galilieo Ferraris andò in immersione. Secondo le testimonianze dell’equipaggio il nostro sommergibile era arrivato così vicino al convoglio che fu possibile percepire persino il gorgoglio dell’acqua che precipitava negli scafi nemici attraverso gli squarci.

Tuttavia nel Mar Rosso non mancarono dolorose perdite per l’Italia. Tra queste la fine del sommergibile Macallè incagliatosi sulla scogliera di Barr Musa Chebir il 15 giugno del 1940 inviò il guardiamarina Sandroni, il sergente Migliorati e il marò Castagliola con un battellino di due metri, una bottiglia d’acqua e qualche galletta per la traversata del Mar Rosso al fine di raggiungere e chiedere soccorso. I tre viaggiarono per giorni e giorni sotto il sole riuscirono a guadagnare la riva e finalmente a chiedere assistenza.

Massaua-Bordeaux: una crociera senza scalo

Con la caduta dell’Eritrea i sommergibili dell’A.O.I. tornarono in Patria compiendo una straordinaria crociera senza scalo di 14mila miglia marine in 80 giorni. L’anima di questa impresa che resterà memorabile nella storia di tutte le marine fu il capitano di fregata Gino Spagone, Capo Gruppo dei sommergibili di stanza nel Mar Rosso. Agli ufficiali ingegneri direttori di macchine giunse l’ordine di verificare lo stato di efficienza dei battelli e soprattutto la questione del carburante. La conclusione fu che l’autonomia per le 14mila miglia poteva essere assicurata dalla capacità dei serbatoi merce. Inoltre c’era il problema dei viveri il cui rifornimento poteva bastare per il calcolo di 80 giorni di traversata, che a seconda le condizioni meteo marine poteva durare di più. Gli inglesi avevano intuiti che c’era aria di smobilitazione alla base sommergibili dell’A.O.I. e avevano capito che la Regia Marina non avrebbe mai ceduto il naviglio militare al nemico. Per tale ragione il nostro convoglio dovette stare accorto allo sbarramento di mine posto nello stretto di Bab el Mandel.

Il primo dei nostri sommergibili mollò gli ormeggi all’alba e fu subito sottoposto a un intenso bombardamento di aerei, ma per fortuna riuscì con audacia a sfuggire alla caccia e a guadagnare l’Oceano Indiano. Gli altri partirono con il favore della notte. I sommergibili che compirono la lunga traversata furono l’Archimede, il Guglielmotti, il Perla, il Galileo Ferraris comandati dal capitano di fregata Gino Spagone, dal capitano di corvetta Livio Piomarta, dal capitano di corvetta Mariano Salvatori, dal tenente di vascello Bruno Napp.

La navigazione fu sempre accompagnata da mare grosso e mare lungo forza 7 oscillanti a forza 8 mettendo a dura prova l’equipaggio. Il fatto di navigare prevalentemente in superficie consentì ai marinai di distrarsi un po’ ascoltando la radio, l’unico mezzo che metteva in contatto gli equipaggi con l’Italia.

All’80° giorno di navigazione l’arrivo alla base di Bordeaux con la cerimonia di accoglienza.

I successi nell’Oceano Atlantico      

Era il 18 agosto del 1940 quando il Bollettino n. 71 del Quartier generale delle Forze Armate fece un resoconto sintetico che un sommergibile della Regia Marina si era spinto nelle acque atlantiche per silurare una petroliere inglese. Una notizia che sbalordì gli ambienti navali europei e non solo. Fu in quel momento che si appresa che la Marina e il suo naviglio subacqueo non solo era impegnato in Mar Rosso e in Mar Mediterraneo, ma era presente anche in Atlantico smentendo che il controllo del Mare Nostrum da Gibilterra da parte degli Alleati fosse inviolabile. Il forzamento dello Stretto di Gibilterra rimase a lungo classificato come documentazione “segretessima”.

Tra i sottomarini italiani che parteciparono alla missione atlantica ci fu il Malaspina, il primo a lanciare siluri contro la petroliera British Fame. Era comandato dal capitano di vascello Mario Leoni, esperiente sommergibilista che aveva preso parte alla guerra di Spagna al comando dell’Smg Tazzoli prima di guidare il Malaspina per concludere la sua carriera al comando del cacciatorpediniere Malocello.

Il Comandante Salvatore Todaro a bordo dell’SMG Cappellini

Un altro comandante che prese parte alla “sfida atlantica” fu il capitano di corvetta Salvatore Todaro che al timone del Cappellini riuscì ad affondare l’incrociatore ausiliario inglese Eumoeus nel gennaio del 1941. La nave britannica iniziò a far fuoco contro il battello italiano colpito da schegge che provocò morti e feriti a bordo. Due colpi inoltre raggiunsero la torretta del Cappellini uccidendo il tenento Danilo Stiepovich. La risposta dell’unità della Regia Marina non fu a vuoto: il 105° colpo di cannone centra in pieno l’incrociatore inglese, poi un siluro italiano lo raggiunge sotto l’albero prodiero e lo fa saltare in aria. Dopo lo scontro il Cappellini si rifugia in un porto neutrale delle Isole Azzorre per riparare lo scafo e riuscirà pure a zig-zag a eludere le navi cinque navi inglesi che lo attendono fuori dalle acque territoriali per annientarlo.

Il Bollettino di guerra n. 240 invece diede notizia che il sommergibile Torricelli al comando del capitano di fregata Primo Longobardo aveva attaccato vittoriosamente un convoglio di quattro piroscafi affondandone tre. Il comandante Longobardo era un capitano di grande esperienza che aveva addirittura partecipato a una missione a bordo del sottomarino tedesco U99. Tuttavia, proprio in Atlantico, la sua vita fu spezzata il 14 luglio del 1942 a circa 350 miglia delle Isole Azzorre alla guida del sommergibile Calvi. Una volta avvistato da una corvetta inglese viene costretto ad andare in immersione. Le bombe di profondità danneggiano lo scafo italiano che non può reggere  alla troppa pressione man mano che scende di metri in metri. Così, tra gli attacchi del nemico sempre più insistenti e il timore che il battello non possa farcela, Longobardo decise di risalire affrontando la corvetta. La manovra del sommergibile italiano colse di sorpresa l’equipaggio della corvetta. Appena emerso il Calvi, con tubi di lancio siluri e colpi in canna nei cannoni, iniziò a far fuoco ma una cannoniera appartenente al convoglio inglese una volta sopraggiunta, prima “illuminerà” il Calvi poi lo colpì in più parti affondandolo.

Guerra ai convogli in Atlantico

L’impegno dei sommergibili italiani in Atlantico è molteplice: ad esempio il comandante Gianfranco Gazzana a bordo del suo Da Vinci riuscì ad affondare unità navali per un totale di 100mila tonnellate di scafi nemici. E poi i successi dell’Smg Barbarigo che in due distinte missioni riuscì ad affondare mercantili, due navi militari della U.S. Navy, la Maryland e la Mississipi .

La battaglia dell’Atlantico fu sicuramente la più complessa tra tutte le battaglie della Seconda guerra mondiale. Dal settembre 1939 al maggio 1945, aerei, navi e sommergibili tedeschi con l’appoggio, dal giugno del 1940 al settembre 1943, dei sommergibili italiani, effettuarono tutte le operazioni necessarie per interrompere, nei limiti dei mezzi, ma con grande impegno e professionalità degli equipaggi, le rotte di comunicazione nemiche. In particolar modo cercarono di intercettare ogni tipo di naviglio che poteva rivelarsi vitale per i rifornimenti di armamenti e materie prime su tutti i fronti del vecchio continente. Sul fronte atlantico, i sommergibili italiani utilizzarono la base francese di Bordeaux, che fu denominato Betasom. Questa fu la base operativa e logistica sulla quale s’imperniò tutto lo sforzo bellico.

I primi sommergibili che operarono in Atlantico erano stati costretti a rientrare, per le necessarie manutenzioni, nei porti nazionali ma dal settembre 1940 quando divenne operativa la base francese, i battelli italiani non furono più obbligati ad attraversare lo stretto di Gibilterra, costretti a manovrare con estrema abilità in acque pericolose per la presenza di forti correnti sottomarine e per l’intensa vigilanza antisommergibile britannica[7].

In Oceano Atlantico l’impegno fu rivolto alla ricerca e all’attacco con risultati che ricompensarono gli equipaggi dalle faticose missioni e soprattutto delle perdite subite. Nei 24 mesi furono affondate 108 navi mercantili e una piccola unità militare ausiliaria per un totale di 593.864 tonnellate di stazza lorda e danneggiate 4 navi mercantili, una delle quali in modo irreparabile, per 32.205 tonnellate di stazza lorda[8]. Nel 1942 e 1943 in Atlantico la media degli affondamenti per sommergibile fu la stessa tra mezzi italiani e tedeschi mentre i sommergibili tedeschi ebbero maggiori successi nel 1940 e 1941.

All’armistizio Maricosom ordinò di “affondare i sommergibili presenti a Bordeaux e di far rientrare il personale” (circa 600 uomini, compresa la compagnia del Reggimento Marina San Marco addetta alla difesa) in Italia[9]. L’11 settembre il comandante Grossi riunì tutto il personale a bordo del transatlantico De Grasse, che fungeva da caserma e centro logistico, e, alla presenza del personale tedesco, tenne un rapporto e invitò tutti a continuare le operazioni a fianco dei tedeschi. Coloro che non accettarono (per la maggior parte sottufficiali e marinai), la sera, furo-no trasferiti in campo di concentramento di Germignan

Conclusioni

I Bollettini di guerra degli anni che vanno tra il 1940 e il 1943 furono ricchi di informazioni, a volte più dettagliate, altre più o meno didascaliche, sui sommergibilisti che fecero le imprese più ardue ed eroiche in tutti i mari del mondo. Longanesi Cattani e il Leonardo da Vinci, Salvatore Todaro e il Cappellini, Tosoni Pittoni e il Bagnolini, Rosselli Lorenzini alla guida del suo Emo, Fecia di Cossato e il Tazzoli, Borghese e il mitico Sciré , Arillo e il suo Ambra, Gazzana Priaroggia che prima con l’ Archimede e poi con il Leonardo da Vinci raggiunse il più alto numero di vittorie sul mare e di navi nemiche affondate, prima di essere a sua volta silurato lungo le coste spagnole. In una lapide ai caduti inglesi si legge “non ebbero altra tomba se non il mare”. Così è stato per i nostri sommergibilisti che persero la vita negli abissi. Da Matapan al Golfo Persico le vittori furono tante anche se, ad onor del vero, nel dopoguerra non mancheranno commissioni di inchiesta per fare luce su presunti affondamenti di navi, come nel caso del 1949 e del 1962. Nonostante ciò il valore degli equipaggi della Regia Marina fu indiscusso non solo per aver dimostrato di essere uniti, compatti e competenti in situazioni difficili, ma anche l’attaccamento alla bandiera e all’Italia.

Vincenzo Grienti

 

 

[1] La Guerra negli Abissi, Fascicolo n.10, pp. gg. 3, maggio 1954, Edizione Ardita, Roma

[2] ibidem

[3] G. Giorgerini, Attacco dal mare. Storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana, p. da 247 a 249

[4] ibidem

[5] Africa Orientale Italiana

[6] P. Caporilli, La guerra negli abissi, Testimonianze, Fascicolo n.10, maggio 1954; Edizioni Ardita, Roma

[7] Ufficio Storico Marina Militare – I sommergibili italiani in Atlantico (giugno 1940 – settembre 1943);  www.marina.difesa.it

[8] ibidem

[9] G. Manzari, I sommergibili italiani dal settembre 1943 al dicembre 1945, Bollettino di Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Dicembre 2011, p. 13