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La diplomazia pontificia dopo l’11 settembre 2001

Dopo l’ostpolitik[1] vaticana di Giovanni XXIII e monsignor Agostino Casaroli che caratterizzò gli anni Sessanta e Settanta della Guerra fredda, con l’elezione di Giovanni Paolo II al soglio pontificio il 16 ottobre 1978 iniziò una nuova fase dell’attività diplomatica della Santa Sede che vide il Vaticano confrontarsi con il blocco comunista fino alla sua dissoluzione.

Se la politica orientale di Paolo VI fu caratterizzata dal motto “trattare e non condannare” (Sthele), che consisteva nel fare varie concessioni al potere comunista per rendere più facile la vita dei fedeli e garantire maggiormente la cura delle anime[2], l’attività diplomatica di Giovanni Paolo II, inaugurata con il viaggio apostolico in Polonia nel 1979 “stimolò” la nascita del sindacato cattolico Solidarnosc fondato da Lech Walesa. “Senza Papa Wojtyla non vi sarebbe stata l’esperienza di Solidarnosc” ha detto l’ex Presidente della Repubblica di Polonia (1990-1995) commentando la lotta pacifica dei 17mila operai dei cantieri Lenin di Danzica[3] “esplosa” il 14 agosto del 1980. Episodi che diedero un segnale molto forte al di là della “cortina di ferro”, ma anche ai partiti comunisti europei tra i quali quello francese e quello italiano. Una nuova geopolitica si disegnò nell’Europa orientale modificando lo scacchiere internazionale. Il crollo del comunismo, la dissoluzione del blocco sovietico e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia, la caduta del Muro di Berlino, la perestrojka e la glasnost di Mikhail Gorbacev e gli accordi delle grandi potenze per la riduzione degli armamenti nucleari di fatto avviarono un nuovo periodo di distensione nei rapporti diplomatici tra gli Stati-nazione che fino al 1989 avevano scelto di allinearsi con gli Usa da una parte e con il regime sovietico dall’altra.

In un contesto storico e politico internazionale del genere la Santa Sede, pur non entrando nel merito delle questioni degli Stati e delle parti in campo nei conflitti – ancora presenti in tutto il mondo-, non mancò di alzare la voce ogni qualvolta venivano calpestati i diritti e la dignità della persona umana. L’attività diplomatica pontificia percorse, diversamente rispetto al passato, una “via” che puntava molto al diritto internazionale come strumento principale per la risoluzione delle controversie. Ed è qui importante far rilevare la presenza della Santa Sede negli organismi internazionali a partire dal 1949 con l’accreditamento di un osservatore presso l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) con sede a Roma, al quale la Sede apostolica nel 1963 assegnò anche la rappresentanza presso il Programma alimentare mondiale (Pam) e nel 1977 presso il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad). Nel 1952, sempre con carattere di osservatore fu accreditato permanentemente un rappresentante della Santa Sede presso l’Unesco a Parigi e nel 1957, accreditando un delegato permanente, la Santa Sede divenne membro fondatore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aieia) con sede a Vienna.

La piena e totale permanenza della Santa Sede presso l’Onu si registrò invece il 6 aprile 1964 dopo la visita di Paolo VI al Palazzo di Vetro e la ratifica della funzione delle Nazioni Unite da parte del pontefice. Dopo questo evento la Santa Sede incrementò la sua presenza nelle organizzazioni internazionali intergovernative inviando un osservatore permanente: nel 1964 presso le Nazioni Unite di New York; nel 1967 presso l’Ufficio Onu e le istituzioni specializzate a Ginevra; nel 1971 presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (Onudi) con sede a Vienna.

Com’è noto, nel 2004 la Santa Sede formalizzò il suo statuto di “osservatore permanente” presso l’Onu con risoluzione N. 58/314 del 1° luglio 2004. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II questa attenzione crebbe ancora di più. Infatti, anche oggi, una presenza stabile della Santa Sede è riscontrabile nei più importanti organismi internazionali[4].

In questo scenario si collocano  i due eventi drammatici con cui si è aperto il XXI secolo: gli attacchi alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e l’avvio di un conflitto completamente nuovo rispetto a quelli che avevano caratterizzato l’intero Novecento. Le immagini di aerei civili che in pieno giorno si schiantarono sulle Torri Gemelle del World Trade Center hanno fatto il giro del mondo in pochi minuti. Un atto di guerra dichiarato in diretta televisiva. Uno “shock” per le diplomazie di tutto il mondo, compresa quella della Santa Sede[5].

Una diplomazia sotto “shock”

I tre giorni immediatamente successici agli attacchi terroristici furono molto intensi sotto il profilo diplomatico. L’11 settembre Giovanni Paolo II inviò un telegramma attorno alle 17.30, ora italiana, da Castel Gandolfo, al Presidente americano George W. Bush, in cui scriveva: “Colpito dall’indicibile orrore degli attacchi terroristici di oggi contro persone innocenti in diversi luoghi degli Stati Uniti, voglio esprimere a lei e ai suoi concittadini la mia profonda partecipazione e la mia costernazione nella preghiera per la nazione in questo momento oscuro e tragico. Affidando alla eterna grazia di Dio onnipotente imploro il suo sostegno spirituale su tutti coloro che sono impegnati nello sforzo di salvataggio e soccorso dei sopravvissuti. Prego perché Dio sostenga lei e il popolo degli Stati Uniti in quest’ora di sofferenza e di prova”.

Il Papa quel giorno seguì il drammatico evolversi degli eventi per tutto il pomeriggio e la serata. L’opinione pubblica fu costantemente informata attraverso il direttore della Sala Stampa della Santa Sede: “Il Santo Padre – dichiarò Joaquin Navarro Valls – è stato informato costantemente del succedersi di questa enorme tragedia. Dal primo momento ha rivolto la sua preghiera a Dio perché dia riposo eterno alle numerose vittime e conforto alle loro famiglie. Immediatamente ha voluto inviare un messaggio al presidente degli Stati Uniti per esprimere la sua vicinanza e quella di tutta la Chiesa a lui e al popolo americano in questi momenti di sofferenza e di prova. Il Santo Padre – concludeva Navarro-Valls  – esprime viva condanna per questa violenza che nulla costruisce”. Anche il cardinale Camillo Ruini, allora Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, attraverso l’Ufficio comunicazioni sociali rese noto un messaggio: “Con l’animo sconvolto per l’immane tragedia provocata da un’inaudita ferocia che si è abbattuta su migliaia di vittime innocenti, attuando un piano assurdo e disumano, desidero esprimere a nome della Conferenza episcopale e dei cattolici italiani commossa partecipazione al dolore delle famiglie colpite e dell’intero popolo degli Stati Uniti. E invito tutti a unirsi alla preghiera del Papa per le vittime, i parenti, i soccorritori, per la nazione americana, e la pace tra i popoli”.
Non erano momenti facili ed era importante rendersi conto degli sviluppi che un attacco fuori da ogni tipologia di guerra convenzionale avrebbe potuto causare nel mondo occidentale. Nella consueta udienza del mercoledì, il 12 settembre 2001, segnata dai drammatici eventi del giorno prima, Giovanni Paolo II per creare un clima di raccoglimento e di preghiera, chiese – diversamente da quanto accade con le espressioni di gioia dei fedeli alla vista del pontefice – di non fare applausi: “Non posso iniziare questa Udienza senza esprimere profondo dolore per gli attacchi terroristici che nella giornata di ieri hanno insanguinato l’America, causando migliaia di vittime e numerosissimi feriti”, esordì Giovanni Paolo II rivolgendo nuovamente al Presidente degli Stati Uniti e a tutti i cittadini americani il suo cordoglio. “Dinanzi ad eventi di così inqualificabile orrore non si può non rimanere profondamente turbati – aggiunse -. Mi unisco a quanti in queste ore hanno espresso la loro indignata condanna, riaffermando con vigore che mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell’umanità”.

Il Papa definì l’11 settembre  un “giorno buio nella storia dell’umanità e un terribile affronto alla dignità dell’uomo”. Una potenziale reazione degli Stati Uniti e dell’Occidente in generale fu uno dei pensieri più ricorrenti nei sacri palazzi. L’America era stata ferita al cuore in misura maggiore rispetto a quanto successo a Pearl Harbour ad opera dell’impero del Sol Levante durante la Seconda guerra mondiale. Lo stesso Giovanni Paolo II si chiese: “Come possono verificarsi episodi di così selvaggia efferatezza? Il cuore dell’uomo è un abisso da cui emergono a volte disegni di inaudita ferocia, capaci in un attimo di sconvolgere la vita serena e operosa di un popolo. Ma la fede ci viene incontro in questi momenti in cui ogni commento appare inadeguato. La parola di Cristo è la sola che possa dare una risposta agli interrogativi che si agitano nel nostro animo. Se anche la forza delle tenebre sembra prevalere, il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola. Qui poggia la speranza cristiana; qui si alimenta, in questo momento, la nostra orante fiducia”[6].

Giovedì 13 settembre 2001 l’attività diplomatica pontificia proseguì con la presentazione delle lettere credenziali dell’ambasciatore americano presso la Santa Sede. In quell’occasione la Sala Stampa diffuse il discorso di Giovanni Paolo II: “Nel mio recente incontro con il Presidente Bush ho sottolineato la mia stima profonda per il ricco patrimonio di valori umani, religiosi e morali che hanno storicamente plasmato il carattere americano. Ho espresso la mia convinzione che la costante guida morale dell’America nel mondo dipende dalla sua fedeltà ai propri principi fondanti. Alla base dell’impegno della sua nazione per la libertà, l’autodeterminazione e le pari opportunità ci sono verità fondamentali derivanti dalle sue radici religiose. Da queste ultime scaturiscono il rispetto per la santità della vita e la dignità di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, la responsabilità condivisa per il bene comune, la sollecitudine per l’educazione dei giovani e per il futuro della società e il bisogno di un’amministrazione saggia delle risorse naturali tanto abbondantemente concesse da un Dio prodigo. Nell’affrontare le sfide del futuro, l’America è chiamata ad amare e vivere i valori più profondi del suo patrimonio nazionale:  la solidarietà e la cooperazione fra i popoli; il rispetto per i diritti umani; la giustizia che è la condizione indispensabile per una libertà autentica e una pace duratura”[7].

Jim Nicholson, questo il nome dell’ambasciatore americano, fu accolto nella residenza estiva di Castel Gandolfo, quarantott’ore dopo quanto successo a New York, a Washington e in Pennsylvania.  “Il Papa mi disse di aver meditato e pregato per quel giorno tragico e concluse che «quello era stato un attacco non solo contro gli Stati Uniti, ma contro tutto il genere umano». Egli accennò al fatto che gli Stati Uniti sarebbero stati obbligati a fare dei passi per proteggere se stessi e chiese soltanto che il presidente Bush si attenesse a quel forte senso di giustizia per il quale il nostro Paese è diventato così rispettato”[8].
Lo stesso Nicholson, inoltre, ebbe modo di sottolineare come “sulla base del riconoscimento papale che gli attacchi dell’11 settembre avrebbero giustificato una risposta, il segretario della Santa Sede per le relazioni con gli Stati, l’arcivescovo Jean-Louis Tauran, dette pubblico appoggio alle azioni americane per snidare i colpevoli”[9]. Citando le parole di Tauran rilasciate in una intervista all’agenzia di stampa cattolica Zenit il 15 ottobre 2001, Nicholson aggiunse che “tutti riconoscono che il governo degli Stati Uniti, come ogni altro governo, ha il diritto alla legittima difesa «perché ha il dovere di garantire la sicurezza dei suoi cittadini»”.

Lo storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi nella biografia su Giovanni Paolo II[10] ha scritto: “Di fronte alla seconda guerra in Iraq, la posizione di Giovanni Paolo II è ferma. I suoi interlocutori, in questo frangente, sono soprattutto gli Stati Uniti di Bush jr. Le parole e gli atteggiamenti del papa sembrano assumere, per il fatto stesso di essere diretti agli Usa, un tono antiamericano. Forte è il conflitto tra la Santa Sede e gli Stati Uniti del presidente cristiano e new born George Bush jr”[11]. Poi cita i documenti pubblicati da Wikileaks sul quotidiano La Stampa di Torino dell’11 dicembre 2010 secondo i quali la Santa Sede avrebbe messo in guardia l’amministrazione Bush sui rischi dei cristiani iracheni, se si fosse attaccata “la dittatura laica di Saddam Hussein”. Dunque il Papa “si oppone frontalmente alla decisione americana di fare la guerra all’Iraq di Saddam”[12]. E’ evidente che, se da un lato c’era la ferma condanna agli attacchi terroristici dell’11 settembre, dall’altro l’impegno di Giovanni Paolo II in favore della pace non poteva che esprimere la voce della comunità cattolica mondiale proprio perché strettamente connessa alla “missione” della Chiesa nel mondo: annunciare il vangelo in tutti gli angoli della Terra. Qualcosa nella diplomazia della Santa Sede era cambiato e l’11 settembre ha messo in evidenza ancor di più questa lenta virata, ben colta da un vaticanista di lungo corso ed editorialista del Corriere della Sera come Luigi Accattoli: “Con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI abbiamo dei Papi che tendono a svolgere una propria presenza apostolica, ecumenica e missionaria a dimensione mondiale, fruendo certamente dell’aiuto che possono avere dalla diplomazia, ma riservandole un ruolo subordinato e secondario, totalmente strumentale. Questa riduzione del ruolo della diplomazia o – per meglio dire – questo mutamento della sua collocazione nell’immagine complessiva del Pontificato romano si lega paradossalmente all’ampliamento delle relazioni diplomatiche della Santa Sede che non solo – sotto Giovanni Paolo II – sono quasi raddoppiate (nei suoi 26 anni e mezzo le rappresentanze pontificie sono salite da 89 a 174), ma si sono estese a cancellerie che erano restate chiuse per secoli, o che sembravano ideologicamente inaccessibili: dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, da Israele alla Russia. Si può dunque prevedere che lo strumento diplomatico accompagnerà l’attività dei Papi anche in futuro, aiutandoli sempre meglio a raggiungere con il proprio messaggio ogni Paese, ma con un rilievo relativamente minore rispetto ad altri strumenti e ad altre vie – ecclesiali, ecumenici e interreligiosi – a loro disposizione[13].

Non era la prima volta che Karol Wojtyla davanti a una situazione internazionale di tensione “interveniva” per far sentire la voce della Chiesa. Lo fece prima e dopo il crollo del comunismo sovietico e, specialmente nella vicenda polacca, aveva dimostrato che l’importanza del dialogo e della transizione pacifica erano le vie per arrivare alla pace.

La “linea” diplomatica di Giovanni Paolo II

Dopo l’11 settembre  il monito del Papa a “non uccidere in nome di Dio” fece meglio comprendere qual era l’oggetto del contendere in campo, o meglio, quello che – anche attraverso gli organi di stampa – si voleva far credere tale. La religione non poteva essere il casus belli che avrebbe aperto scenari dai futuri imprevisti per l’ordine mondiale. Lo spunto di un dibattito che nei giorni immediatamente successivi al crollo delle Torri Gemelle montò tra esperti, intellettuali, storici, analisti e giornalisti fu tratto dalla visione de Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington: le ragioni di divisione riscontrate dal politologo americano sono infatti più forti di quelle dell’unità e, a suo parere, sono destinati a portare a un mondo nel quale “i principali conflitti (…) avverranno tra nazioni e gruppi appartenenti a diverse civiltà”.[14]

Il cardinale Camillo Ruini nel 2001 Presidente della CEI

Le civiltà sono “il più alto livello di identificazione culturale” ed è possibile, secondo Huntington, definirne otto nell’attuale sistema internazionale: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, induista, slavo-ortodossa, latinoamericana e africana. Una visione “pessimistica”, quella di Huntigton, che mette in evidenza come “le differenze tra civiltà sono profonde e durature e porteranno a conflitti concentrati sulle faglie tra una e l’altra”[15]. Più che dall’equilibrio di potenza o dall’adesione a una comune ideologia, dunque, secondo Huntington, in futuro, allineamenti e schieramenti avrebbero dipeso dall’affinità culturale.  Su questa visione “pessimistica” anche in ambito ecclesiale di discusse molto attraverso conferenze, interventi, articoli e approfondimenti sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani italiani ed esteri. In merito alla drammatica situazione internazionale e al dibattito sullo “scontro di civiltà” intervenne più volte l’allora presidente della Cei. A margine di una conferenza stampa sui lavori del Sinodo nell’ottobre del 2001, il cardinale Camillo Ruini, a chi gli chiese un parere sul prolungarsi delle operazioni belliche, espresse “preoccupazione e sofferenza” per ciò che stava accadendo. “Non credo – aggiunse, però – che i tempi siano prolungati volontariamente. Ci sono tante situazioni e condizioni che non conosco e dunque non posso dare un giudizio. La cosa importante – sottolineò il vicario del Papa per la diocesi di Roma, ricordando quanto aveva già detto in proposito l’11 ottobre 2001 – è che in questa situazione difficile si continui a camminare sul crinale sottile tra le necessità della lotta al terrorismo e l’evitare che diventi uno scontro tra civiltà e religioni”. Al contrario, i rapporti tra civiltà e religioni dovrebbero “trovare spunti per approfondirsi e non per diventare peggiori. È una sfida difficile, ma che bisogna raccogliere”[16]. L’analaisi come sempre lucida del cardinale Ruini a distanza di tempo fece e fa comprendere bene, anche se in una breve battuta rilasciata ai giornalisti, l’oggetto del confronto culturale dei mesi successivi all’11 settembre.  Ma la questione andava oltre e al di sopra le pagine culturali dei giornali. Se da un lato la Santa Sede riconobbe il diritto degli Stati Uniti all’autodifesa, dall’altro l’attività principale dopo l’11 settembre fu quella di intensificare “le proprie iniziative parlando chiaro contro ogni violenza attuata nel nome di Dio e promuovendo il dialogo interreligioso e la comprensione come contrappeso a coloro che cercavano di provocare un violento scontro di civiltà e di religioni”[17].
Non a caso in seguito, nel gennaio 2002, Giovanni Paolo II convocò ad Assisi, la città di san Francesco, oltre duecento leader religiosi per pregare per la pace.

Sulla “legittima” lotta contro il terrorismo

Il 10 gennaio 2002 Giovanni Paolo II nel suo primo discorso dopo gli attacchi alle Twin Towers al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede – udienza che si svolge solitamente nei primi giorni dell’anno – sottolineò come “la legittima lotta contro il terrorismo, di cui gli odiosi attentati dell’11 settembre scorso sono l’espressione più efferata, ha ridato la parola alle armi” ma avvertì: “Di fronte alla barbara aggressione e ai massacri si pone non soltanto la questione della legittima difesa, ma anche quella dei mezzi più adatti a sradicare il terrorismo, come pure quella della ricerca delle cause che stanno all’origine di simili azioni, e quella delle misure da prendere per dare l’avvio a un processo di “guarigione”, per superare la paura ed evitare che male si aggiunga a male, violenza a violenza. Così, bisogna incoraggiare il nuovo governo installato a Kabul nei suoi sforzi tesi ad una effettiva pacificazione di tutto l’Afghanistan. Debbo infine fare accenno alle tensioni che oppongono, ancora una volta, l’India e il Pakistan, per invitare insistentemente i responsabili politici di queste grandi nazioni a dare la priorità assoluta al dialogo e al negoziato”[18].Parole che fecero riflettere, così come quelle che riguardavano direttamente il rapporto tra guerra e religione: “Occorre inoltre ascoltare la domanda che ci viene rivolta dal cuore stesso di questo abisso: il posto e l’uso della religione nella vita degli uomini e delle società. Desidero ribadire qui, davanti a tutta la comunità internazionale, che uccidere in nome di Dio è una bestemmia e un pervertimento della religione”[19].

In tale occasione Giovanni Paolo II ribadì quanto scritto nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1°gennaio 2002 sul tema Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono al n.7:  “È profanazione della religione proclamarsi terroristi in nome di Dio, uccidere e violentare l’uomo in nome di Dio. La violenza terrorista, infatti, è contraria alla fede in un Dio Creatore dell’uomo, un Dio che si prende cura dell’uomo e lo ama”.

Giovanni Paolo II

Il Messaggio per la Giornata mondiale della pace, da sempre considerato uno tra i più importanti documenti pontifici per comprendere l’azione diplomatica della Santa Sede, fece comprendere la posizione precisa di Giovanni Paolo II in particolare al n. 4 in cui il Papa fece riferimento al fenomeno del terrorismo:

È proprio la pace fondata sulla giustizia e sul perdono che oggi è attaccata dal terrorismo internazionale. In questi ultimi anni, specialmente dopo la fine della guerra fredda, il terrorismo si è trasformato in una rete sofisticata di connivenze politiche, tecniche ed economiche, che travalica i confini nazionali e si allarga fino ad avvolgere il mondo intero. Si tratta di vere organizzazioni dotate spesso di ingenti risorse finanziarie, che elaborano strategie su vasta scala, colpendo persone innocenti, per nulla coinvolte nelle prospettive che i terroristi perseguono.

Adoperando i loro stessi seguaci come armi da lanciare contro inermi persone inconsapevoli, queste organizzazioni terroristiche manifestano in modo sconvolgente l’istinto di morte che le alimenta. Il terrorismo nasce dall’odio ed ingenera isolamento, diffidenza e chiusura. Violenza si aggiunge a violenza, in una tragica spirale che coinvolge anche le nuove generazioni, le quali ereditano così l’odio che ha diviso quelle precedenti. Il terrorismo si fonda sul disprezzo della vita dell’uomo. Proprio per questo esso non dà solo origine a crimini intollerabili, ma costituisce esso stesso, in quanto ricorso al terrore come strategia politica ed economica, un vero crimine contro l’umanità[20].

E poi al paragrafo successivo sottolineò l’importanza del diritto a difendersi dal terrorismo:

“Esiste perciò un diritto a difendersi dal terrorismo. E un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L’identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi. La collaborazione internazionale nella lotta contro l’attività terroristica deve comportare anche un particolare impegno sul piano politico, diplomatico ed economico per risolvere con coraggio e determinazione le eventuali situazioni di oppressione e di emarginazione che fossero all’origine dei disegni terroristici. Il reclutamento dei terroristi, infatti, è più facile nei contesti sociali in cui i diritti vengono conculcati e le ingiustizie troppo a lungo tollerate. Occorre, tuttavia, affermare con chiarezza che le ingiustizie esistenti nel mondo non possono mai essere usate come scusa per giustificare gli attentati terroristici. Si deve rilevare, inoltre, che tra le vittime del crollo radicale dell’ordine, ricercato dai terroristi, sono da includere in primo luogo i milioni di uomini e di donne meno attrezzati per resistere al collasso della solidarietà internazionale. Alludo specificamente ai popoli del mondo in via di sviluppo, i quali già vivono in margini ristretti di sopravvivenza e che sarebbero i più dolorosamente colpiti dal caos globale economico e politico. La pretesa del terrorismo di agire in nome dei poveri è una palese falsità[21]“.

Chi lo fa e uccide con atti terroristici coltiva, secondo Giovanni Paolo II, sentimenti di disprezzo verso l’umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro: tutto, in questa prospettiva, può essere odiato e distrutto:

Il terrorista ritiene che la verità in cui crede o la sofferenza patita siano talmente assolute da legittimarlo a reagire distruggendo anche vite umane innocenti. Talora il terrorismo è figlio di un fondamentalismo fanatico, che nasce dalla convinzione di poter imporre a tutti l’accettazione della propria visione della verità. La verità, invece, anche quando la si è raggiunta — e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile — non può mai essere imposta. Il rispetto della coscienza altrui, nella quale si riflette l’immagine stessa di Dio (cfr Gn 1, 26-27), consente solo di proporre la verità all’altro, al quale spetta poi di responsabilmente accoglierla. Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine. Per questo il fanatismo fondamentalista è un atteggiamento radicalmente contrario alla fede in Dio. A ben guardare il terrorismo strumentalizza non solo l’uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi[22].

Conclusioni

L’11 settembre è una data che ha cambiato profondamente le dinamiche e i rapporti internazionali. L’attività delle rappresentanze pontificie specialmente nei Paesi mediorientali ne ha risentito. Sono sempre più frequenti, infatti, gli attacchi alle chiese cristiane in paesi, anche moderati, del mondo arabo. A dieci anni dal crollo delle Torri Gemelle, i discorsi di Giovanni Paolo II e l’attività della Santa Sede assumono maggiore rilevanza. Quella pontificia era una diplomazia che aveva intrapreso una strada nuova. L’azione diplomatica della Santa Sede sotto il Pontificato di Papa Wojtyla poneva un’enfasi particolare sulla questione dei “diritti umani” a rischio in molte parti del mondo, sulla rilevanza “strategica” attribuita alla libertà religiosa, sull’importanza del dialogo interreligioso nella promozione della pace, sulla decisione di agire contro ogni legittimazione religiosa dei conflitti armati e a favore del superamento degli strumenti utilizzati dalla guerra nella soluzione delle controversie internazionali. Di questa diplomazia l’artefice fu ancora una volta Giovanni Paolo II, seppur malato e anziano, non esitò a trovare soluzioni orientate a salvaguardare prima di ogni cosa la persona e la dignità umana.

Vincenzo Grienti

 

[1] Per Ostpolitik vaticana si intende la politica orientale della Santa Sede nei confronti dei Paesi appartenenti al blocco del Patto di Varsavia. La Santa Sede ha dato vita a una coraggiosa politica di dialogo negli anni della Guerra fredda che ha portato la Chiesa cattolica al confronto difficile e complesso con i sistemi politici fondati sul marxismo-leninismo.

[2] M.F. Feldkamp, La diplomazia pontificia, Jaka Book, Milano, 1995, p. 111

[3] L.Walesa, Sulle ali della libertà, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2011 p. 27

[4] Nel sito internet della Santa Sede (www.vatican.va) sono disponibili gli interventi e i discorsi del Papa alle Nazioni Unite

[5] La diplomazia vaticana è espressione propria della Santa Sede, in quanto suprema autorità della Chiesa cattolica. Come dichiara il preambolo del Trattato Lateranense, la Santa Sede goe di sovranità indiscutibile nel campo internazionale; e l’articolo 2 del medesimo Trattato riconosce – con una formula pregnante – che tale sovranità è un «attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione e alle esigenze della sua missione nel mondo». (Card. Giovanni Lajolo, Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Uno strumento docile e fedele al Papa, relazione del 16 febbraio 2006 al Circolo di Roma pubblicata dalla rivista 30Giorni diretta da Giulio Andreotti, 3 marzo 2006)

[6] Giovanni Paolo II, Udienza generale del 12 settembre 2001, Libreria Editrice Vaticana

[7] Discorso di Giovanni Paolo II al nuovo ambasciatore degli Stati Uniti d’America presso la Santa Sede in occasione della presentazione delle lettere credenziali, 13 settembre 2001

[8] J. Nicholson, Usa e Santa Sede, 30Giorni, Roma 2004, p. 87

[9] ibidem

[10] A. Riccardi, Giovanni Paolo II, la biografia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), p.428

[11] Ultima op. cit, p.428

[12] ibidem

[13] Dal blog di Luigi Accattoli, http://www.luigiaccattoli.it/blog/?page_id=1538

[14] S.P. Huntington, The Clash of Civilization, in Foreign Affairs n.72, 1993

[15] F.Andreatta, Alla ricerca dell’ordine mondiale. L’occidente di fronte alla guerra, Il Mulino, Bologna 2004, p. 52

[16] M.Muolo, Ruini ribadisce: non diventi scontro tra civiltà e religioni, Avvenire del 25 ottobre 2001

[17] J. Nicholson, op.cit.

[18] Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Città del Vaticano, 10 gennaio 2002

[19] ibidem

[20] Giovanni Paolo II, Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono, Messaggio Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2002

[21] ibidem

[22] Giovanni Paolo II, Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono – Messaggio Giornata mondiale della pace 2002,