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Dalla Condotta alla Giustizia Riparativa: dal Panopticon alla Rete Lunga

Non ci sono mostri terrificanti , è il veleno della paura che trasuda
(Adam Curtis)

di Claudio Saita
(1-5-2015)

La Condotta oggetto dell’Intervento.
Nella giustizia moderna è scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale. C’è nella giustizia moderna una certa vergogna a punire, che non sempre esclude lo zelo. Sopra questa ferita pullulano gli psicologi e tanti piccoli funzionari dell’ortopedia morale (M.Foucault). Finita l’epoca del supplizio il corpo è divenuto strumento ed intermediario per la privazione della libertà considerata un diritto ed un bene. Il corpo è irretito in un sistema di costrizioni, privazioni, obblighi e divieti (percorsi di disciplina), in un’economia di diritti sospesi. Le regole austere mirano da lontano a trasformare il castigo in una “pena da espiare” alla quale si dedicano un esercito di tecnici: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi ed educatori. Il passaggio successivo relativo all’espiazione prende in considerazione l’anima del condannato cioè la qualità, la sostanza del fatto che costituiscono l’elemento conosciuto, valutato e giudicato come punibile. Parliamo di dimensioni dell’epistemologia giuridica che non appartengono alla sfera del diritto in senso stretto o perlomeno non sono giuridicamente qualificabili: la conoscenza del criminale e dell’ insieme dei rapporti fra lui, il suo passato, il delitto e ciò che ci si può aspettare da lui in avvenire. Non c’è nulla di particolarmente originale nell’assunzione da parte del diritto di elementi extra giuridici. Si dipartono così nella sfera giudicante rami laterali o secondari a cui si dedicano quell’esercito di tecnici che una volta emessa la sentenza possiamo considerare “giudici aggiunti”. La storia del diritto penale e delle scienze umane così si incrociano dando vita ad uno nuovo statuto epistemologico relativo all’umanizzazione della pena e della connessa nuova conoscenza sull’uomo. Questo incrocio geometrico di potere punitivo e nuovo sapere produce lo studio dei sistemi punitivi come sistemi concreti che non devono rendere conto solo della loro armatura giuridica ma possono essere analizzati come fenomeni sociali.

Dalla Condotta alla “Riparazione” : il problema della relazione
Il processo di diagnosi e valutazione sui sistemi di pena e sul loro funzionamento deve tenere così conto del peso e della rilevanza di dimensioni non solo specifiche afferenti la sfera giuridica ma del contesto ecologico (E.Morin), dello scenario delle società globalizzate. Il luogo della pena diviene così emblematicamente il luogo o della conferma nell’era della globalizzazione del trionfo della tecnologia del potere sui corpi (vivi o morti) ovvero il luogo del ripristino del regime della possibilità di sconfiggere i pensieri killer che hanno alimentato ed alimentano in particolare chi ha commesso un reato che ha procurato, direttamente o indirettamente, nocumento ad altri corpi ( il tema del corpo prigioniero è stato affrontato da vari autori fra i quali, il già citato M.Foucault, E.Fromm ed H. Marcuse). In altri termini quella “solitudine dell’io globale” di cui ci parla Magatti nell’epoca tecno – nichilista ha in particolare nel carcere, per ragioni che accennerò brevemente, la possibilità di essere confermata o riformulata con percorsi appropriati. Nello scenario globale dai rapporti di potere il corpo è addestrato a certi comportamenti, cerimonie, segni. E’ un corpo assoggettato e sempre più sottomesso a determinati riti. Tutto ciò per manovrarlo verso bisogni ossessivi e compulsivi (consumo ergo sum, Z. Bauman) che comportano progressivamente l’estinzione del desiderio, cioè di una risposta esauriente e sensata alla coscienza di una mancanza, di un’assenza (J. Kristeva). Il desiderio della relazione significante, non a tempo, viene soppiantata così dalla fascinazione estetica verso l’oggetto da cui scaturiscono progressive dipendenze, comportamenti regolari cioè prevedibili. Gli inclusi, pertanto , pur essendo la globalizzazione costituita da confini mobili (P. Dumochuel), ispessiscono sempre più queste linee di demarcazione, mimetizzando o respingendo tutto ciò o tutti coloro che possano mettere in disequilibrio questo equilibrio fondato sul non – sense, perché la tecnica non si pone il problema del significato delle azioni messe in essere nel contesto ma semplicemente del loro funzionamento. Il dominio della tecnica produce un processo spesso confuso ed ambiguo di forme di ridefinizione e ricomposizione dei rapporti spazio-temporali nella sfera della socialità. L’avvento della globalizzazione fa emergere un nuovo concetto di limite riferito alla vita sociale. Si ridefinisce in altri termini il rapporto fra il dentro ed il fuori nella vita sociale perché nel mondo globalizzato non c’è più nulla da scoprire e l’Orizzonte è divenuto tutto visibile allo sguardo dell’esploratore. La presenza di confini permeabili alimenta inoltre il senso dell’ansia e dell’insicurezza dell’individuo globale. Il linguaggio delle relazioni sempre più impoverito, afasico, si sviluppa così sempre più in non – luoghi, in luoghi metropolitani di transito, nei quali la relazione evapora e tutto ciò che appare come legame in realtà viene ridotto a disciplina, cioè comportamento seriale, dunque regolare e ricorsivo anche nella sua origine anomica. La crisi della legge, il Nomos, – la disciplina intesa nella sua radice etimologica scaturente dal Vecchio e Nuovo Testamento, come capacità di giudizio e presidio dei comportamenti positivi – è anzi il presupposto per sostituirla con organizzazioni regolamentari e disciplinari che segmentano e differenziano lo spazio dentro da quello fuori, il silos degli inclusi (parole come invasione evocano questa frontiera simbolicamente impenetrabile) classifica gli esclusi e stigma il loro corpo e la loro anima (M. Foucault). Per questa ragione Recalcati ha parlato di società anoressica, fenomeni di rigetto della vita, dell’Alter, della diversità, dell’ospite divenuto potenziale nemico. Renè Girard, antropologo francese, ha parlato dell’anoressia come “desiderio mimetico competitivo”, socialità declinante perché il desiderio della felicità eclissa dall’orizzonte del soggetto ed il corpo diviene un involucro prigioniero di bisogni insensati ovvero si astiene dal consumo di ciò che può dargli benessere. Questa astinenza di solito genera rabbia e rancore. Il Rancore prende corpo non solo nella sfera del privato ma anche in quella pubblica ed in essa si alimenta di riti e simboli. Occorre, infatti, di volta in volta avere un nemico perché senza di esso la crisi di significato degli spazi e dei tempi della socialità diverrebbero insopportabili. Il processo di trasformazione del caos relazionale nella legge di controllo sulla regolarità – la tendenza all’uniformità (singolarizzazione, P. Barcellona) – indica il bisogno della devianza, di comportamenti apparentemente imprevedibili e contrari alle regole della disciplina, perché essi giustificano l’adozione di meccanismi sempre più pervasivi di controllo e sorveglianza: le geometrie dei percorsi dei custodi (M.Foucault), il panopticon di Bentham di cui ci ha parlato lo stesso Foucault. Il panòpticon si configura come un modello di controllo nel quale chi è sorvegliato non vede il sorvegliante ma è a sua volta ben visto da esso. Il sorvegliato è ben visibile al sorvegliante nel panòpticon ma è reso “invisibile” a coloro che sono fuori della torre sezionata e dall’anello delle stanze intorno ad essa. Il modello panoptico si configura dal punto di vista della fenomenologia sociale come una proliferazione dei meccanismi disciplinari, coercizioni leggere, sottili per stimolare comportamenti adattivi e regolari. Un’invisibile presa in carico dei comportamenti degli individui. Una sorveglianza permanente, esaustiva, onnipresente che vuole rendere tutto visibile ai custodi dell’uniformità a condizione che essa rimanga invisibile alla maggioranza per una più semplice metabolizzazione da parte di essa dei comportamenti devianti. La società ne conosce l’esistenza di questi individui sorvegliati; talvolta compaiono nello scenario pubblico diventando per un momento visibili ma in realtà la loro invisibilità è garantita dai meccanismi di sorveglianza per ragioni di sicurezza ovvero da processi di rimozione dallo scenario sociale di figure che disturbano per la loro rappresentanza fisica del dolore e della marginalità (homeless, migranti, malati di Alzheimer ecc.). La trasformazione dei meccanismi di custodia in tempi più recenti è stata anche estesa al controllo dei dati sulle persone (datagate, wikileaks) aprendo un dibattito nella società contemporanea sull’esercizio del potere di sorveglianza sulle “vite degli altri”, sulla effettiva parità delle armi in giudizio e sull’uso del “segreto” di Stato come modalità di esercizio del dominio sull’assetto esistente e di governo del conflitto. Il tema è divenuto ovviamente molto più scottante dopo l’11 Settembre del 2001 e dopo la relativamente recente nascita dell’ISIS riconducibile anche a responsabilità di alcuni paesi occidentali ed arabi prevalentemente di fede sunnita. Per concludere su questo punto che richiederebbe ben altra trattazione, molti analisti e commentatori sono comunque d’accordo che attraverso la stessa tecnologia ed i comportamenti individuali e collettivi sia possibile attenuare (non eliminare) gli effetti più pervasivi dei controlli attuati attraverso il possesso dei dati. Rimane dunque aperto il tema dell’uso indiscriminato dei dati che non riguarda più i regimi ma le attuali democrazie che rischiano di trasformarsi per questa via in regimi a loro volta. Ritornando alla categoria della disciplina, essa si configura come una modalità di esercizio del potere sull’anima e sui corpi, strumenti, tecniche, procedimenti di statuizione della regolarità dei comportamenti, della loro funzionale prevedibilità anche nei casi apparentemente più “anomali” o irregolari ( es. la casistica sempre più diffusa su delitti familiari efferati commessi intra moenia ). La disciplina riconduce il caos ad ordinarietà e legittima l’impossibilità di poter distinguere il normale dal “patologico” che diviene la normalità della patologia ovvero la patologia della normalità (consumi ossessivi o compulsivi). L’esorcizzazione del dolore e della morte dal panorama contemporaneo si coniuga con la crescente spettacolarizzazione della devianza (anatomia dei delitti sui media) come parimenti della morte, fino al punto che la tecnologia che produce morte in modo mirato è già stata definita “intelligente” cioè capace di comprendere la sua finalità ed indirizzarla verso il bersaglio prescelto (concetto delirante in senso tecnico).

La giustizia riparativa
Il sistema di sorveglianza è simmetrico rispetto all’’attuale concezione di giustizia che, in linea generale, possiamo ancora definire retributiva. Il reato viene visto in sostanza come violazione di una norma che porta a conseguenze giuridiche (provvedimenti di restrizione della libertà personale). La giustizia riparativa propone, invece, un’ottica differente, di profonda discontinuità rispetto alla precedente concezione centrata sulla considerazione del reato come una rottura del sistema di aspettative reciproche che crea un danno alla persona/comunità. Il focus viene spostato dalla concezione riparativa della giustizia, infatti, dalla condotta alla persona, permettendo di arrivare ad un incontro tra i soggetti coinvolti che prenda in considerazione ciò che in realtà è stato violato: la relazione con l’altro. In questa sede esula dal mio compito l’inquadramento giuridico del problema ed i riferimenti all’attuale sistema penale processuale in particolare riguardante i minori e la funzione della mediazione penale come pratica processuale facilitativa della ricostruzione del rapporto interrotto fra l’ego e l’alter. L’ONU peraltro, vale la pena qui ricordarlo, sia nel 2002 che nel 2005 ha ribadito l’importanza di sviluppare ulteriormente le politiche di giustizia riparativa. In questa nostra riflessione comune, come avevo premesso all’inizio, interessa approfondire cosa accade dentro e fuori le mura di un istituto di pena nel momento in cui si determini il passaggio dalla concezione della giustizia come intervento sulla cattiva condotta a quello della giustizia riparativa, cioè si interviene sulla ricostruzione della relazione fra il soggetto e la società della disciplina seriale come l’abbiamo connotata.

Narrazioni dal Confine
Le considerazioni che seguiranno tengono anche conto di alcune pratiche laboratoriali di scrittura di gruppo con giovani adulti ristretti, in particolare nell’IPM di Bicocca (CT). La narrazione sorge perché la parola è interessante e dunque non possiamo prescindere dal racconto, così come non possiamo prescindere dalla parola relazione. La narrazione rappresenta qualcosa di più della relazione, perché non possiamo vivere una relazione fra corpi se non c’è comunicazione, un’interazione di storie. Nei non luoghi metropolitani oggi abbiamo una relazione fra corpi ma non esiste narrazione. Narrare è il respiro della nostra storia. E’ un impulso irresistibile, antichissimo. Narrare non è difficile, lo facciamo tutti i giorni. Desideriamo il potere di narrare perché esso da respiro ed ordine al tempo stesso, alla nostra storia, ad una rete relazionale che altrimenti si ridurrebbe ad una sequenza di eventi “racchiusi” e sconnessi fra loro. Attraverso la narrazione cerchiamo di sedimentare ed ordinare nella nostra vita tutto ciò che è imprevisto e inatteso, tutto ciò che appare assurdità e stranezza, irregolarità. La narrazione ci accompagna nel viaggio di discernimento della nostra identità: ci facilita nella comprensione di ciò che è accaduto ed accade. La narrazione costituisce dunque un’opera impareggiabile di formazione e trasformazione perché il narrare è dare senso agli eventi della vita. Occorre tuttavia evitare il trucco che questo racconto sia al servizio dell’io, di un io “eroico”, epico, che cerca di trarre il massimo vantaggio, nel mantenersi ad ogni costo al centro del quadrato del nostro processo riflessivo e ricostruttivo dagli eventi. L’io egotico provato da eventi traumatici non esita ad utilizzare la dissimulazione, la menzogna e la falsità ( “Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se stessi”, Ian Mc Ewan). L’io narrante, in questo caso, farà della narrazione un esercizio prevalentemente narcisistico, talvolta penitenziale e spesso consolatorio. L’io narrante per “far tornare i conti” è tendenzialmente dispotico, perché interessato non tanto a ciò che potrà essere appreso quanto a ciò che dovrà essere affermato. Per queste ragione l’io narrante non va da nessuna parte. Noi preferiamo allora usare l’espressione del SE’ narrante che, al contrario delle alluvionali chiacchiere dell’io, favorisce una silenziosa e talvolta appartata riflessione che sa interrogarsi con pazienza ed evita risposte affrettate e frettolose (quelle che si danno alle domande che non si sono capite ed i giudizi imperativi che alimentano incomprensioni ed intolleranze). Il se’ narrante suscita pensieri intelligenti sulla vita o aiuta a pensare la vita con intelligenza: cioè aiuta a “scegliere” la vita secondo la radice etimologica latina del termine. L’emersione del SE è possibile attraverso una pratica narrativa preferibilmente in gruppo. Il concetto di pratica non si schiera per uno dei poli delle tradizionali dicotomie che distinguono l’agire dal conoscere e l’attività mentale dall’attività manuale. Il processo di coinvolgimento nella pratica coinvolge la persona nella sua totalità, in quanto soggetto che conosce ed agisce nello stesso tempo. La relazione fra teoria e pratica è infatti complessa ed interattiva. La teoria non è inutile né meramente ideale. La pratica è influenzata dalla teoria ma non è un’ incompleta applicazione di essa. La pratica infatti è una riflessione in azione (Donald Schòn). Il concetto di pratica connota l’agere in un contesto storico e sociale che dà struttura e significato alla nostra attività. La pratica include l’esplicito: i documenti, i simboli, le immagini, i ruoli definiti, le procedure codificate, le normative. La pratica include il tacito: le regole inespresse, le allusioni sottili, le convenzioni tacite, gli assunti sottostanti, le visioni condivise del mondo (logos e mythos). La narrazione implica la relazione, una relazione nella quale gioca un ruolo fondamentale la parola. Con la parola la relazione diviene racconto che facilita lo sviluppo della dimensione della reciprocità. Dal contesto della relazione, infatti, quando essa diviene una relazione narrativa l’ego e l’alter condividono anche mentalità, rappresentazioni della vita ed esperienze. Narrando di noi stessi, non raccontiamo solo i fatti della nostra storia ma comunichiamo agli altri i nostri paradigmi, modelli e stili di pensiero che sono chiamati a sostenere, in una pratica laboratoriale, anche la verifica del giudizio del gruppo. La pratica della narrazione diviene così il transito nel territorio delle storie che divengono racconti. La pratica della narrazione del sé si trasforma in un luogo non appena della memoria individuale ma della memoria di tutti: il luogo in cui la memoria di tutti accoglie le storie senza bisogno di mentire a se stessa per guadagnare considerazione e comprensione. L’esercizio e la pratica della narrazione sono l’opera di formazione e trasformazione della storia dell’io nel racconto del sé. Il racconto del se’ a sua volta prepara il terreno al racconto del NOI. La pratica crea confini, ponti fra la comunità di pratiche e il resto del mondo; non semplici linee di demarcazione fra l’interno e l’esterno ma nuovi panorami sociali. La pratica si sviluppa in una dimensione percepibile di prossimità e pertanto la sua configurazione sociale non può che essere locale (nuova configurazione del rapporto centro – periferia). La pratica è fonte di nuova conoscenza (apprendimento). Il suo sviluppo determina un processo d’interazione fra esperienza e competenza e ne configura in maniera dinamica la relazione. L’esercizio della narrazione sarà al tempo stesso componimento e trasposizione di un racconto che possa mostrare negli eventi il filo che li riconduce a noi come a chiunque altro. L’esercizio della narrazione è nel cammino della formazione di sé una sorta di risveglio creativo del narrabile della vita. Un nuovo sguardo capace di afferrare l’intimo della storia e di rappresentarlo per tutto ciò che sarebbe stato inimmaginabile ed impensato fino a quel momento. Sui confini si narra l’Altrove ciò che è considerato irrilevante, incidentale, non ha precedente, non fa parte del già pensato (Castoriadis), non appartiene alle nostre “mappe cognitive” (Covey) e pertanto è invisibile nello scenario pubblico (Habermas).
Sul confine si ascoltano i sussurri della moltitudine (A.Bonomi), le grida del mondo dei vinti, i senza nome, coloro che non hanno una rappresentanza, coloro che fanno parte di una organizzazione sociale aspaziale e atemporale (A.Giddens). L’urlo dei vinti costringe a riconsiderare nel presente un’antropologia: rivedere certe posizioni e ridare voce ( voice exit, Hirschmann) a chi non ha più voce. Costruire un metodo di scavo nel profondo del disagio, nella fragilità che è la difficoltà di uscire da una sconfitta che non è solo materiale ma imprime “uno stigma nell’anima” (Foucault). Sul confine nasce una nuova conoscenza, una chiave per comprendere (cum – prehendere), cioè cogliere la differenza insieme, ciò che accade dentro e fuori di noi, i nostri confini mobili, ed evitare che accada ciò che Daumal affermava di coloro che, pur molto colti, per non affrontare la “società del rischio” (Beck) semplificano la complessità, con la conseguenza che sanno tutto ma non comprendono nulla. Sul confine nasce una nuova cultura dell’incontro. La Cultura come organizzazione della vita che ciascun popolo (o gruppo sociale) privilegia, come patrimonio valoriale acquisito e praticato, approccio metodologico ed azioni ecologiche per creare un contesto favorevole allo sviluppo dell’incontro, cioè della relazione fra le diversità. Uomini ed organizzazioni sono fatti di confini perché cedono centralità, generando zone mobili del potere. I confini sono “terre di mezzo” dove le vite si esprimono ognuna con i suoi bordi, luoghi dove si mescolano certezza ed incertezza. La paura s’incontra più frequentemente sul confine, luoghi di discrimine fra il dentro ed il fuori. I confini sono necessari perché indicando una differenza consentono alle identità di prender forma. Il ripristino di un regime di comprensione e riconoscimento della differenza può avvenire prevalentemente in quella terra di mezzo che, lavorando sulla comunanza, può arrivare al riconoscimento della differenza: “E’ solo sconfinando che si capisce” (Althusser). I confini indicano inoltre la misura del radicamento di una Comunità di Pratica nell’accezione già definita. I confini sono inevitabili ed utili perché definiscono la trama per delle identità impegnate anche ad approfondire una traiettoria d’apprendimento. La focalizzazione sui confini è importante per l’architettura di apprendimento di una Comunità di pratiche per:
 La focalizzazione sui confini aiuta a spiegare gli eventi insoliti e le connessioni che si fanno e non si fanno;
 Sui confini le cose possono perdere visibilità o essere ignorate perché non fanno parte di un regime consolidato di responsabilizzazione;
 I confini possono essere luoghi difficili da abitare perché non è sufficiente nessuna competenza consolidata;
 I confini creano nuove interconnessioni fra esperienza e competenza, sono una risorsa di apprendimento vero e proprio perché sono il luogo più favorevole per lo sviluppo di nuove conoscenze;
 I processi di confine creano nuove storie nel tempo e proprio per questo danno luogo a nuove pratiche.
 L’esercizio della narrazione, lasciando la parola alla vita stessa la ‘rianima’ cioè la fa nuova;
La vita rianimata dall’esperienza della narrazione che rinasce sul confine ci apparirà lieve come una farfalla, mobile e variopinta per quanto greve, opaco, ostico e grigio ci fosse apparso all’inizio quell’accaduto (es. la crisi o la pena da espiare) di cui abbiamo voluto “fare racconto”. La parola che si fa narrazione serve a dare ordine alla vita e rappresenta un mezzo di ricerca della propria dignità e di riorganizzazione dell’esperienza. La parola che si fa racconto aiuta a “leggere” la realtà, lascia “traccia”, talvolta “cura”, altre volte “guarisce”, “riconcilia” con il mondo. Questa pratica della narrazione avviene come già detto sul confine, sui bordi della ferita (Zizek) sui quali l’interno s’inscrive all’esterno e viceversa, creando un’interdipendenza talmente forte da rendere queste due dimensioni in certe circostanze indistinguibili. Su questi bordi la relazione riparte perché la parola sana e ri-sana, la parola fa e dis –fa. La parola si s – catena perché promuove l’ordine disordinato della libertà; la parola, infatti, non dice per che cosa e verso dove anche se l’approdo all’umano dell’umano affiora fra le righe.

Il Risveglio dell’Umano e le Reti Lunghe
Con l’ordine disordinato della libertà promosso dalla parola rinasce il processo di produzione di significato, il sense making (K.Weick) che getta uno sguardo retrospettivo sul passato, alimentando la fiducia sul presente e sul futuro. L’umano si risveglia (embedded, Weick), trova un nuovo aggancio alla realtà (enactement, Weick), ma il processo di ricostruzione della relazione interrotta è correlato in modo positivo prevalentemente alla qualità e durata dei nodi della rete attraverso i quali si sviluppa il regime della possibilità di farcela, di riscattare l’errore commesso, di sanare i bordi lacerati della ferita.
Questa rete la definiremo “lunga” nella misura in cui sarà in grado d’interrompere quel corto circuito fra i flussi delle relazioni a tempo tipicizzate dei nostri scenari globalizzati ed i luoghi – non luoghi dove esse si ancorano transitoriamente. La rete cercherà di generare, in altri termini, nuovi luoghi significativi della relazione, tòpos e tèmenos che siano il nuovo centro di quella periferia dell’umano da cui è partito il nostro viaggio per la focalizzazione dell’obiettivo dominante di ciò che definiamo giustizia riparativa La rinascita dell’umano ha bisogno di essere corroborato dalla costruzione di relazioni che, sia nella dimensione ad intra che ad extra rispetto al luogo di pena, creino discontinuità rispetto al regime della sorveglianza che tende a produrre relazioni di mero scambio negoziale. La reciprocità, la dimensione del noi come costruzione di un progetto di vita comune, inizia dentro le mura e si estende fuori di esse sulla base del fatto che i soggetti implicati nella relazione inseriscano in essa elementi che non siano mossi solo dal principio di equivalenza cioè di misurabilità e comparabilità dei beni scambiati. Se ciò avverrà dentro gli istituti di pena, con l’estensione prevista dalle numerose norme che consentono già oggi l’interscambio fra il dentro ed il fuori gli istituti, questa dimensione di scambio non negoziale diverrà paradigmatica del percorso di nuovo umanesimo che riguarda l’intera società globalizzata, il mondo degli inclusi, i prigionieri del silos. Le esperienze in corso nel nostro paese di giustizia riparativa in molti istituti di pena per minori ed adulti, emblematicamente, stanno dando una risposta al tema posto da Papa Francesco, dopo il terribile naufragio dei migranti al largo di Lampedusa il 3 Ottobre del 2013, sul superamento della “globalizzazione dell’indifferenza” per una ricostruzione dell’umano a partire dalle “periferie esistenziali”. Le periferie esistenziali, i luoghi dei volti deturpati dalla pena, in questa cornice epistemica, possono pertanto costituire il centro della rinascita di un nuovo umanesimo, con l’attuazione pratica del principio che la persona sia diversa ed ontologicamente superiore rispetto all’errore commesso.