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Il limite secondo Emmanuel Levinas

Per Emmanuel Levinas l’Altro è un viatico che può ricondurre alla fede poiché l’Altro, con la sua irriducibilità e alterità, è la rivelazione dell’infinito, dell’infinita alterità, che pure è presente e ci ispira, anche se non si svela compiutamente a noi. Levìnas contrappone Rivelazione biblica a Ossessione dell’essere: è la prima a consentirci di riconoscere l’Altro come tale, con una sua totale autonomia, un suo compiuto orizzonte di senso. Essa ci impone di non ridurlo a noi stessi con un uso totalizzante delle nostre categorie interpretative. Ma la relazione all’Altro, oltre che fondata sulla fede, ha anche una connotazione etica: l’irriducibile alterità dell’Altro è quella, ad esempio, che ci impone di non uccidere o alimenta, quando lo facciamo, un perenne rimorso della coscienza. Ecco perché la relazione e la responsabilità che abbiamo nei confronti dell’Altro sono una dimensione costitutiva di noi stessi. Da qui le basi dell’origine del limite umano.

Quella che per dirla come più volte maestri e docenti sottolineano ai propri alunni e allievi “la libertà di fare le cose finisce laddove inizia la libertà dell’altro”. Ecco il limite umano nelle relazioni quotidiane. Per diversi studiosi, la riflessione di Levìnas sull’Altro costituisce uno dei fondamenti teorici del multiculturalismo contemporaneo, suggerisce, cioè, una visione nuova e diversa dei rapporti fra gli individui e fra le culture: come rapporti fra diversi, che come tali vanno riconosciuti e valorizzati. Solo attraverso questo riconoscimento è possibile attivare una comunicazione autentica fra le culture, senza affermazioni egemoniche di una sull’altra. Questa è una prospettiva feconda, attraverso cui, ad esempio, è possibile guardare in modo nuovo ai problemi di rapporti fra le culture che vengono a determinarsi con i processi migratori in atto su scala planetaria.

Il pensiero di Emmanuel Lévinas si è sviluppato, quindi, su due versanti privilegiati: l’esercizio fenomenologico di cui è stato tra i primi rappresentanti in Francia e le letture talmudiche, ispirate a temi biblici ed ebraici. Partendo da Heidegger, Lévinas rimette in questione il primato del problema dell’essere, dominato dal principio di totalità, per cercare nell’appello dell’alterità il fondamento di una soggettività autentica. In questa preminenza dell’etica, nella parte più interna della quale si incontra il principio dostoevskiano della responsabilità universale, l’essere responsabili di tutto verso tutti, Lévinas ritrova il tema della Legge, centrale nel pensiero ebraico.
E’ qui che si potrebbe inserire il concetto di regola, intesa anche e non solo come “regola di condotta”. Nella vita di ogni persona non esistono solamente le “regole” dettate da un ordinamento giuridico, ma ci sono delle regole e dei codici di comportamento che danno l’idea di quanto sia importante agire con responsabilità, discernimento, equilibrio. Tutto ciò fa capire che ogni persona umana non può avere comportamenti illimitati e che c’è un “limite” a tutto. Il pensiero di Lévinas nasce, cresce e si consolida nel tempo durante tutta la sua vita. Nel 1923 si trasferisce in Francia a Strasburgo, dove inizia gli studi universitari, seguendo i corsi di Blondel e di Halbwachs. Nel 1928-1929 si reca a Friburgo, dove assiste alle ultime lezioni di Husserl e conosce Heidegger di cui rimase affascinato. L’ ” apprendistato della fenomenologia “, come egli lo ha definito, orienterà poi la sua ricerca personale. Dal 1930 fino alla guerra occupa diverse funzioni nella “École normale israélite di Auteuil”, che forma gli insegnanti dell’Alliance Israélite Universelle e stringe amicizia con Henri Nerson, cui dedicherà il suo primo libro di scritti giudaici ” Difficile Liberté “. Emmanuel Lévinas rievoca spesso gli anni dei suoi studi universitari a Friburgo, dove si recò prima che ” Hitler diventasse Hitler “. Fa poi ritorno in Francia prima che Hitler salisse al potere, nel 1932.

Molto interessante per prendere spunti sul concetto di limite è ” Dall’esistenza all’esistente “, opera scritta nel 1947. Di quest’opera non si comprenderà nulla se non la si illumina con il “sole nero” che ha coperto l’Europa tra il ‘39 e il ‘45, dove la semplice positività autoevidente dell’esistere è stata scossa per sempre, ha visto svanire il suo diritto. Tutta l’opera di Lévinas è “assillata” da ciò che non può essere detto (anche questo è un limite ndr). E non per dirlo, finalmente, piegandolo alle condizioni del linguaggio, ma per ricomprendere l’intero compito del linguaggio e della parola a partire da ciò che inevitabilmente vi si sottrae. Una comunicazione con l’altro che lo lasci essere altro, senza ridurlo alla comune misura. Un cammino che, obbediente all’intenzione ebraica del “dabar”, che assieme significa “parola” ed “evento”, ci conduca verso una patria nella quale non siamo mai nati. Nessun ritorno all’origine, dunque, nessuna ricomposizione, ma esodo, partenza, destituzione della sovranità di un soggetto che conosce e dispone e che, nella sua originaria libertà, dice e pensa ogni cosa a partire da sé, come se avesse assistito alla creazione del mondo e alla propria stessa nascita. Generalmente si affronta il pensiero di un filosofo attraverso l’enucleazione dei suoi temi, ma è proprio questo che in Lévinas risulta impossibile. L’unico suo interesse è nella costruzione di un pensiero e di una scrittura che si lascino sollecitare da ciò che resiste alla coscienza e al suo movimento appropriante.