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Igor Man, un vecchio cronista che incontrò i grandi della Terra

Igor Man, alias Igor Manlio Manzella, di padre siciliano e madre russa da “vecchio cronista” com’è stato – tanto per riprendere il titolo della rubrica che per lungo tempo ha firmato sul quotidiano La Stampa – nel corso della sua vita ha sempre offerto principalmente ai lettori una finestra e la sua personale testimonianza umana e giornalistica sul rapporto “fede e notizia”. Nel febbraio 2009, quasi dieci mesi prima della sua scomparsa, Igor Man offrì ai giornalisti uno spaccato della sua vita in occasione di una tavola rotonda dal titolo “..soprattutto niente giornalisti. Se la fede diventa notizia”. Un convegno di studio promosso dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana. L’aula magna dell’Università Lumsa di Roma era gremita di studenti e giornalisti vaticanisti. Fu un momento per riflettere sulla professione giornalistica, sulle sfide degli anni futuri, ma soprattutto ascoltare chi il cronista lo aveva fatto “consumando la suola delle scarpe” e a rischio della vita. Al centro della riflessione c’era il concetto della fede che si fa notizia e la notizia che approda alla fede, proprio prendendo spunto dal titolo del libretto di Jacques Derrida.  “mi accende un flash: l’incontro che ho avuto con Madre Teresa di Calcutta. Ero molto curioso di sapere, di capire come Giovanni Paolo II si fosse comportato con i lebbrosi. Con aria divertita Madre Teresa mi disse: io ho baciato un lebbroso e ho detto al Papa: bacia. Ma Giovanni Paolo II ha fatto finta di non sentire – esordì il vecchio cronista – . Madre Teresa si ripropone e nuovamente davanti a un lebbroso suggerisce al Papa di baciarlo, ma Giovanni Paolo II fa di nuovo finta di niente. La terza volta Madre Teresa invita ancora a baciare un lebbroso. Alla fine Giovanni Paolo II cede e bacia il lebbroso. E qui – raccontò l’inviato di guerra – Madre Teresa mi ha detto piangendo: “E’ stato un miracolo della fede perché dopo il Papa li ha baciati tutti e tutti venivano da lui piangendo di gioia”.

Un momento che ha colpito molto Igor Man, classe 1922, esperto di politica estera e appartenente alla schiera dei grandi inviati di guerra. Nella sua vita ha intervistato grandi personaggi del nostro tempo, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruščёv, Ernesto “Che” Guevara, Gheddafi, Padre Pio, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres. “Io sono solo un povero cronista, ma se ci penso – proseguì Igor Man riprendendo il discorso su Madre Teresa – quella volta mi sono trovato davanti a un miracolo terreno. E’ la fede che in quella occasione colpì e intenerì un grande personaggio come Giovanni Paolo II”. Un grande uomo che lo stesso giornalista si trovò qualche anno davanti dopo una richiesta di intervista. “Più che intervistarlo io, fu Giovanni Paolo II ad intervistarmi – commentò Igor Man -. Questo grande pontefice annullò tutta una serie di incontri per parlare con me. Voleva di Padre Pio. Voleva bene a Padre Pio. Gli chiesi: potrebbe essere il tredicisemo apostolo? Mi rispose: mi piace questa definizione”.

Ma c’è un’altra esperienza che Igor Man non dimenticherà mai: nel ’75 durante il periodo di governo del generale Jaafar al Nimeiry, che aveva conquistato il potere con un colpo di Stato nel ’69, assieme ad altri giornalisti, tra i quali il grande Egisto Corradi, l’inviato di Le Monde e l’inviato di Le Figaro Man arriva a Karthoum e poi si trasferisce nella città gemella Omdurman. “Prendemmo un taxi, delle vecchie Fiat 128 scassate – ricordò l’anziano giornalista – e mentre parlavamo con le donne del posto che avevano il volto, come se piangessero, tracciato con il sughero riscaldato con il fuoco di una candela come segno di lutto, quasi fossero preda di un interminabile pianto. L’inviato di Le Monde, ebreo e cittadino francese nato ad Alessandria D’Egitto ci stava aiutando a parlare con queste donne perché sapeva bene l’arabo. Improvvisamente arrivò una camionetta dell’esercito con dei soldati nevrotici, giovanissimi, e a pedate ci costrinsero a salire su una camionetta che partì a gran velocità. Cercammo di spiegare, di dire che eravamo giornalisti, mostrammo le tessere, ma niente. Ci intimarono di stare zitti. Questa camionetta iniziò a girare sotto il sole cocente. Il giornalista di Le Monde comunicò di aver intuito che stavano cercando un posto dove fucilarci. Arrivammo in un terreno abbandonato con dei ruderi. Scendemmo dalla camionetta a colpi di calcio fucile e sotto questa calura enorme assistiamo alla scena di questi militare che imbracciano i mitra. A quel punto Egisto Corradi disse: ”Stanno aspettando un graduato”. Infatti, in Sudan vigeva il regolamento militare inglese – spiegò Igor Man -. L’esecuzione, dunque, doveva essere comandata da un graduato. Ero consapevole che mi stavano per fucilare. Iniziai a pregare e mentre pregavo pensai: è impossibile che mi uccidano, impossibile che devo morire. Penso – rifletteva Igor Man – che fino all’ultimo momento un uomo non crede mai che potrà morire. Insomma: aspettavamo la fucilazione. Alternavo la preghiera all’ottimismo che sarebbe stato impossibile morire. Ad un certo punto arrivò un’altra camionetta dalla quale scese un graduato che aveva al petto decine di decorazioni. Egisto Corradi, che aveva fatto l’alpino in Russia e che se ne intendeva di decorazioni militari, individuò tra le tante decorazioni anche quella della campagna militare in Congo. Fu in quel preciso e drammatico istante che l’inviato di Le Monde esclamo “Dio”, quasi invocandolo per la situazione che da lì a poco si sarebbe venuta a creare. Corradi invece si rivolge al graduato e gli chiese: ”E’ stato in Congo?”. E il sergente rispose di sì. Iniziò una chiacchierata e il momento divenne liberatorio perché iniziò un colloquio tra i due che poi ci portò addirittura ad aiutare il sergente, la cui camionetta si era insabbiata”.

I giornalisti non diedero mai la notizia di quell’episodio per non fare allarmare i parenti, ma Igor Man non dimenticherà mai l’esclamazione “Dio!” dell’inviato di Le Monde. “Penso – rifletteva a freddo – che in quel momento la Provvidenza ci abbia aiutato”. Poi si lascia andare a una considerazione: “Oggi posso dire che non siamo più il quarto potere, ma abbiamo sempre il potere di fare del bene e di fare del male. Per me il bene è raccontare i fatti così come sono, senza deformarli. Il male torturando i fatti secondo una morale voluta. Oggi il giornalismo italiano è in crisi, quello americano pure, perché non riesce secondo me ad avere fede nel proprio lavoro. E’ diventato un impiego: si è impiegati della notizia. Pochi sono coloro che credono in questo mestiere. Che poi è molto semplice: raccontare la vita, raccontare la morte, raccontare la realtà”. Una realtà, quella di Igor Man che lo ha condotto a incontrare anche “Che Guevara”.

Nell’intervista il “Che” alla domanda “Qual è il suo rapporto con Dio” gli confidò: “Non mi sono mai posto il problema di Dio. Però se veramente esiste mi auguro che nel suo cuore ci sia posto anche per il comandante Che”. Con Igor Man è scomparso uno degli ultimi inviati di guerra oltre che un maestro del giornalismo italiano. Igor Man, figlio di uno scrittore siciliano e di una nobile russa, esule in Italia, è stato una «firma storica» del giornalismo italiano. Subito dopo la Liberazione, giovanissimo, entra nel «Tempo». Nel 1963 Giulio de Benedetti lo chiama alla «Stampa» dove ha lavorato fino a pochi giorni dalla sua scomparsa come editorialista e inviato. Ha dato testimonianza degli accadimenti più significativi degli ultimi 50 anni: dalle guerre meridionali, al Vietnam, dall’Africa all’America Latina, sopravvivendo all’assedio di Camp Kannack (Vietnam) e al plotone di esecuzione (Sudan).

Durante la sua vita incontrò intervistandoli personaggi come Kennedy, Kruščëv, il «Che», Madre Teresa, Golda Meir, Gheddafi, Padre Pio, Khomeini, Arafat, Shimon Peres. E’ stato uno studioso delle religioni, tra i massimi esperti del Medio Oriente. Autore del longseller Diario arabo (Bompiani, 1992), avevo vinto fra gli altri il Premio Hemingway, il Premio Colomba d’Oro per la Pace (ex aequo con Amnesty International) e il Premio Internazionale St. Vincent alla carriera. L’Università internazionale Giorgio la Pira lo aveva nominato, insieme con l’Abbé Pierre, «Artisan de la Paix» nel 2000.