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I manipolatori della pazzia. Un libro da rileggere

I manipolatori della pazzia: studio comparato dell’Inquisizione e del Movimento per la salute mentale in America, edito da Feltrinelli nel 1972, è il titolo di una delle opere del celebre psichiatra Thomas Szasz.

Nato nel 1920 a Budapest da una famiglia ebrea, Szsaz, nel 1938 emigrò negli Stati Uniti per formarsi presso l’Università di Cincinnati dove si distinse per le sue idee controverse nell’ambito della medicina psichiatrica. Egli sosteneva che la mente non è qualcosa di fisico che si ammala; la malattia mentale di conseguenza non esiste in quanto tale ma si può ricondurre a quell’insieme di comportamenti che la società non tollera e che tende ad allontanare.

Con la stesura dell’opera citata in apertura, l’autore vuole dimostrare come la contemporanea caccia ai “pazzi”, come lui stesso la definisce, da parte della psichiatria istituzionale, sia in realtà una continuazione della pratica della “caccia alle streghe” tipica dell’età medievale e poi moderna. Ciò che accomuna la strega al malato mentale è il fatto di essere etichettati come individui pericolosi, e perciò da eliminare con la morte sul rogo nel primo caso, o la chiusura in manicomio nel secondo. Ed è in virtù di questa presunta pericolosità che agiscono da un lato, l’inquisitore, e dall’altro lo psichiatra, due figure istituzionali in cui Szasz nota una forte analogia. Difatti, entrambi si ergono a benefattori dell’intera comunità poiché credono di agire sia in difesa della stessa, sia in difesa della vittima al fine di redimerla, quasi esclusivamente attraverso l’uso di metodi coercitivi e violenti, dal proprio stato di peccatrice o di malato.

Nel libro, Szasz individua ulteriori categorie di individui che sono state vittime di discriminazioni nel corso dei secoli quali gli ebrei, gli omosessuali e le persone di colore. La domanda principale che si pone l’autore è il perché la società ha bisogno di accanirsi nei confronti di determinati soggetti che vengono presentati come il male da estirpare. Egli trova una risposta negli studi dell’antropologo scozzese James G. Frazer che cita:

La nozione che si possano trasferire le nostre colpe e le nostre sofferenze su alcuni esseri che le porteranno sopra di sé al nostro posto è familiare alla mente selvaggia. […] Essa deriva da una confusione molto ovvia tra il fisico e il mentale, tra il materiale e l’immateriale. Poiché è possibile spostare un carico di legna, pietre, o altro ancora, dalla nostra schiena alla schiena di un altro, il selvaggio immagina che sia egualmente possibile spostare il peso dei suoi dolori e delle sue pene su di un altro, che lo porterà sopra sé in sua vece. Egli agisce secondo questa idea, e il risultato è una interminabile sequela di piacevoli stratagemmi per scaricare su altri quelle preoccupazioni che un uomo rifugge dal sopportare.”

In quanto animale sociale, l’uomo è sempre membro di un gruppo, mai un individuo isolato. Per rimanere membro di questo gruppo, egli deve spesso aggredire e sacrificare coloro che non ne fanno parte; per dimostrare fedeltà al proprio gruppo e per confermare la propria appartenenza alla comunità, i membri hanno bisogno di escludere altri singoli accusandoli di infedeltà.

Il capro espiatorio, dunque, è necessario come simbolo del male che è comodo espellere dall’ordine sociale e che, mediante il suo stesso essere, conferma la bontà dei rimanenti componenti della comunità. In sostanza, vi è una volontà di validare il “Sé” come buono e “l’Altro”, ovvero colui che viene emarginato, come cattivo. Tramite il male attribuito all’Altro, il persecutore si autentica come virtuoso.

In conclusione, l’intento di Szasz è quello di far riflettere il lettore su come si evolvono nel corso dei secoli le discriminazioni verso i soggetti considerati dannosi dalla società ma come in realtà, la necessità di sacrificare un capro espiatorio al fine di salvare la collettività da una possibile disgregazione, sia sempre la stessa.

Stella Merlini
Dottoressa in Storia