Giorni di Storia

date, nomi, avvenimenti che raccontano il '900

ArchivioAvvenimentiHistory FilesIn Primo Piano

Michele De Rada, storia di un Generale

di Magg. Gerardo Severino
Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza

Nel lontano 1891 un Generale del Regio Esercito Italiano, Michele De Rada, di nobile famiglia spagnola ma nato a Messina, fu prescelto dal Ministero della Guerra per ricoprire un importantissimo incarico, in aggiunta a quello di titolarità.

Il Generale De Rada avrebbe, infatti, sostituito un suo collega, giunto da poco al congedo, nella carica di Presidente della Commissione di Disciplina per gli Ufficiali della Regia Guardia di Finanza.

Il Corpo dei Finanzieri, che allora non godeva ancora di autonomia propria, né tantomeno si trovava militarizzato, era tenuto a rispettare una disciplina molto simile a quella militare, ragion per cui a giudicare i propri Ufficiali si era reso necessario, sin dal 1881, istituire un’apposita Commissione interforze (con membri militari e civili) presso l’allora Direzione Generale delle Gabelle.

Il Generale De Rada, tuttavia, ricoprì tale incarico solo per pochi mesi, poiché nel corso dello stesso anno un’importante legge di riforma che aveva interessato la Guardia di Finanza istituì il c.d. “Comitato per il Corpo”, organo collegiale alla cui guida fu posto lo stesso De Rada, in qualità di Presidente.

De Rada mantenne tale incarico sino al luglio del 1893, data in cui dovette anch’egli porsi in congedo. I suoi pochi anni alla guida del Comitato furono, però, decisivi in quanto proprio durante quel periodo le Fiamme Gialle si videro riconoscere le più importanti riforme ordinative.

Anche per tale ragione, il Generale De Rada, quale primo Presidente del Comitato per il Corpo, lasciò un segno indelebile fra tutte le Fiamme Gialle, essendo ritenuto, a giudizio di tanti, come il vero fautore di quei progressi organizzativi e istituzionali di cui il Corpo avrebbe goduto solo da lì ad un decennio.

È per questa ragione, quindi, che ho voluto dedicare al Generale Michele De Rada questo modestissimo lavoro: ricerca con la quale ho cercato di ricostruire la biografia di uno dei più affermati Ufficiali Generali che caratterizzarono la vita del Regio Esercito, ma anche della Guardia di Finanza, nel corso dell’Ottocento.

Membro autorevole di quell’Arma d’Artiglieria che tante nobili figure di soldati e condottieri ha dato al nostro Paese, il Generale De Rada fu un vero patriota, un grande soldato, ma anche un dotto scrittore. Non solo, ma lasciato l’Esercito nel 1893 rimase sempre legato a questo e al mondo militare in generale.

Presidente della “Società dei Militari in Congedo”, mantenne viva la fiammella del sentimento patrio e di quello militare, sia fra gli iscritti che nell’ambito della società nella quale visse sino alla sua morte prematura.

Le notizie qui raccolte sono certamente frammentarie e lacunose, anche perché molto di più avrebbe meritato il Generale De Rada. Non sempre, però, gli archivi e i libri ci consentono di restituire alla storia del nostro Paese e a quella delle nostre Forze Armate la memoria e la vera immagine di questi grandi uomini, di questi grandi soldati e artefici del nostro glorioso Risorgimento.

In ogni caso, ritengo vada apprezzato almeno lo sforzo! Buona lettura.

 

  1. Da Messina a Napoli (1838 – 1845).

 

Michele De Rada, protagonista di questa bella e affascinante storia, nacque a Messina, una delle principali roccaforti del Regno delle Due Sicilie “al di là del Faro”.

Sì, era proprio questo il nome con il quale venivano definiti, allora, i possedimenti borbonici (lgs. “Regni”) rappresentati dall’isola di Sicilia, a differenza della parte continentale dello stesso Regno, definita “al di qua del Faro”, la quale comprendeva le terre che andavano, da Sud a Nord, da Reggio Calabria a Gaeta, ivi compreso l’Abruzzo, quindi praticamente gran parte dell’Italia Centro-Meridionale.

Non solo, ma la bellissima Messina rappresentava essa stessa la linea di demarcazione dei due “Regni”, in quanto era proprio nei pressi del suo storico porto che aveva sede il potente faro marittimo, che da molti anni svolgeva il suo importantissimo compito di guida per i marittimi che si accingevano a valicare il temutissimo Stretto che separava e separa la Trinacria dalla Calabria.

Era il 22 gennaio del 1838, un lunedì e una fredda giornata invernale, quando Michele vide la luce, andando così ad allietare la famigliola di Nicola De Rada, allora Capitano di Fanteria dell’Armata delle Due Sicilie.

Nicola De Rada si trovava a Messina da anni, in servizio presso la locale Guarnigione Militare, acquartierato con moglie e figli nella storica Cittadella, in quanto inquadrato nei ranghi del glorioso 7° Reggimento nazionale di Linea “Napoli”, a quel tempo agli ordini del Colonnello Don Raffaele del Giudice[1].

Quella dei De Rada era una famiglia di nobilissime origini spagnole, trapiantata in Sicilia all’epoca della nota “Guerra del Vespro”, allorquando, fra i cavalieri aragonesi che sbarcarono a Palermo il 7 settembre 1282, al seguito di Re Pietro III d’Aragona, marito di Costanza (la figlia di Manfredi di Svevia, già Re di Sicilia), al quale era stata affidata la Corona di Sicilia, vi fu anche il nobile Aznar De Rada, al quale in seguito verrà affidata la Castellania di Butera[2].

Non solo, ma quella dei De Rada era anche una nobile famiglia di militari, e lo era almeno da qualche secolo, come ci confermano gli Annuari del Regno, oltre a testi di storia militare. Un Ferdinando De Rada, 2° Tenente dei Legionari, viene ricordato all’epoca della Repubblica Partenopea, nel 1799, mentre un Michele De Rada, probabilmente fratello di Nicola, viene indicato, in un annuario del 1832, quale Secondo Tenente, sempre di Fanteria.

Un Francesco De Rada, classe 1818, anche lui fratello di Nicola, era Primo Tenente del 13° Reggimento “Lucania” e, in seguito, fu Capitano della Brigata “Abruzzi”, aggiunto al servizio di Stato Maggiore già nel 1855[3]. Un Leopoldo De Rada viene ricordato come Tenente dell’11° Reggimento di Fanteria, mentre un Ludovico De Rada, classe 1827, già Alfiere nei Cacciatori della Guardia nel 1851, è Primo Tenente di Fanteria nel 1860, e così via.

Nicola De Rada, oltre ad essere un valente ufficiale dell’Esercito borbonico, era anche un uomo di lettere e appassionato studioso di storia, tanto da essere annoverato fra i soci sostenitori di una importante opera editoriale curata dal Conte Dumas, il cui primo volume fu edito a Napoli nel 1834 con il titolo di “Cenni sugli avvenimenti militari, ovvero saggi storici sulle Campagne dal 1799 al 1814”.

La nascita di Michele De Rada a Messina coincise con un periodo di “calma”, almeno apparente, dopo i mesi turbinosi che la città dello stretto e gran parte della Sicilia avevano vissuto, sia a causa dell’ennesima epidemia di colera, sia a causa dei moti popolari, spesso inscenati dalla furia popolare a caccia di presunti “untori”, con conseguenti stragi di poveri innocenti.

Nell’agosto del 1837, tanto per citare un esempio, gravi tumulti popolari scoppiarono in varie località dell’isola, ma soprattutto a Catania e Siracusa, ove fu necessario fare ricorso all’Esercito.

In tale circostanza, la storia ci ricorda che furono arrestate oltre 700 persone, identificate quali rivoluzionari, tutte accusate di aver voluto approfittare dell’epidemia colerica per sollevare la popolazione contro il legittimo Governo napoletano. Furono, anche in quell’occasione, istituite Commissioni Militari per giudicare e condannare i colpevoli.

Nei primi mesi e nella primavera del ’38, invece, la situazione siciliana appariva più tranquilla, nonostante il fatto che Re Ferdinando II, il 7 maggio, avesse approvato la riforma dell’Amministrazione siciliana, in virtù della quale si accentuava ancor di più la centralità del potere nelle mani dello Stato, decretando, quindi, che le città di Palermo, Messina e Catania fossero amministrate da un Senato cittadino, ma alle dipendenze di un Intendente Regio.

Non di meno, il Sovrano delle Due Sicilie avrebbe varato, nel novembre successivo, la costruzione di numerose strade comunali e provinciali in tutta l’Isola, segno evidente di quanto la Corte napoletana tenesse all’amata isola di Sicilia, nonostante quanto asserito dai numerosi detrattori delle vicende meridionali pre-unitarie.

La stessa Messina, col suo grandioso porto commerciale, si sarebbe presto avvantaggiata grazie ai nuovi collegamenti che avrebbero unito il Regno alle nuove tratte oceaniche e ciò dopo che il 10 dicembre del 1842 era stata fondata a Napoli la prima Società per la Navigazione a Vapore nell’Atlantico, che proprio in quella città avrebbe previsto uno dei suoi scali principali.

Iscritto presso una scuola elementare gestita dalla locale Diocesi, Michele De Rada dimostrò sin da bambino una predilezione per lo studio delle scienze e delle arti applicate, passione che, come vedremo in avanti, lo avrebbe portato ai vertici di dell’Arma di Artiglieria[4].

Parliamo di quella gloriosa specialità dei vari Eserciti preunitari, che tradizionalmente univa le menti più eccelse dell’ufficialità d’allora, tanto da essere definita “l’Arma dotta”, e, per questo, spauracchio per gran parte dei Sovrani del tempo, volendo ricordare i sentimenti liberali di gran parte degli ufficiali che ne avevano fatto e ne facevano parte.

Nato e cresciuto in una famiglia di militari, Michele De Rada visse, tuttavia, la sua fanciullezza in un contesto storico nel quale nel suo paese, così come nell’Italia intera, si respirava il vento della rivoluzione. Aveva, ad esempio, sei anni quando in Calabria si consumava l’impresa rivoluzionaria dei Fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, i quali, sbarcati in Calabria, nei pressi di Crotone, furono sbaragliati a San Giovanni in Fiore, nei pressi di Cosenza, il 19 giugno 1844.

Ciò aveva comportato una nuova ondata di arresti e di persecuzioni contro gli esponenti di spicco del mondo liberale, ondata che non aveva risparmiato ovviamente Messina e la Sicilia intera, i cui sentimenti autonomisti erano ben noti sia alla Corte di Re Ferdinando che alla sua odiata polizia.

In ogni caso, il piccolo Michele visse felicemente a Messina sino al 1846, allorquando, in seguito alla morte prematura del padre Nicola, s’impose il rientro della famiglia a Napoli e, di conseguenza, l’adozione di una decisione anche riguardo alla futura sistemazione sua e dei suoi fratelli.

Fu, dunque, proprio nel corso del 1846 che il povero Michele, dovendo seguire le tradizioni di famiglia, fu ammesso presso la prestigiosa Scuola Militare di San Giovanni a Carbonara, da anni operante nel Quartiere della Vicaria, Scuola nella quale si formavano i futuri Sottufficiali dell’Armata.

A consigliare in tale senso la madre di Michele fu il cognato, il Capitano Ferdinando De Rada, che allora si trovava a Napoli a ricoprire l’importantissima carica di Commissario del Re presso il 2° Consiglio di Guerra della locale Guarnigione militare, incarico che ricoprì anche in epoca successiva[5].

La Scuola di San Giovanni era acquartierata in un ex convento, che fino al 1807 era appartenuto agli eremiti Agostiniani e che, dopo la restaurazione al trono di Re Ferdinando I, nel 1814, passò a tale destinazione.

La Scuola Militare formava annualmente 160 “alunni”, ripartiti in tre Compagnie, i quali, nel corso di un ciclo addestrativo di ben 8 anni, ricevevano l’istruzione da parte di 16 maestri, coordinati da un “quadro ufficiali” e da un “aiutante maggiore”, cui spettava l’istruzione e l’applicazione dei regolamenti militari[6].

Alla San Giovanni a Carbonara, tuttavia, Michele De Rada non completò affatto il corso per divenire Sottufficiale e ciò grazie alla circostanza in virtù della quale, come ricorda lo storico Roberto Maria Selvaggi: “…riuscendo fra i primi, ebbe il privilegio di passare alla Nunziatella nel 1851”[7].

A questo punto, anche se conosciuto ai più, ci sia consentito un breve flash su questo importantissimo istituto di formazione dell’Esercito borbonico, peraltro ancora oggi attivo in quel di Napoli. Il “Real Collegio Militare” della Nunziatella era sorto a Napoli nel 1787 per volere di Re Ferdinando IV di Borbone, come Reale Accademia Militare.

Esso aveva sede nel vasto convento di Monte Erchia, a Pizzofalcone, che un tempo ospitava il noviziato dei Gesuiti, il quale, dopo la soppressione, era stato trasformato dapprima in Collegio di educazione per la nobile gioventù ed in seguito nella c.d. “Scuola Politecnica”. L’Istituto aveva preso il nome di Nunziatella per via della annessa chiesa, vero e proprio gioiello dell’arte barocca napoletana, dedicata al culto della Santissima Annunziata.

La Nunziatella, che da decenni formava l’eccellenza non solo del mondo militare napoletano, ma anche di altri importanti settori della buona società meridionale, ospitava in genere 140 alunni, paganti una pensione di 15 ducati mensili. Per istruzione, gli alunni erano divisi in otto classi, nelle quali venivano impartite lezioni di letteratura, matematica pura e mista, chimica e fisica, storia e geografia, disegno, topografia e architettura militare.

I primi sedici alunni che si fossero distinti nello studio sarebbero stati destinati al servizio di “paggio del Re” nelle pubbliche funzioni. Dopo gli esami: “…gli alunni forniti di più cognizioni ed ingegno, passano ai Corpi facoltativi: gli altri all’armata, tutti però con grado di ufficiale”[8].

La Nunziatella, che dal 20 settembre 1841 formava anche gli aspiranti al grado di “Guardiamarina” della Flotta reale borbonica, era comandata da un Colonnello dell’Armata (molto spesso scelto fra l’Artiglieria), mentre l’istruzione agli allievi veniva assicurata da 13 professori ed altrettanti maestri. Il Collegio, infine, usufruiva di un “sontuoso gabinetto di macchine”, come ci ricorda lo stesso Zuccagni Orlandini.

All’atto dell’ingresso di Michele De Rada a Pizzofalcone, la Scuola si trovava al comando del Colonnello d’Artiglieria Don Gennaro Simeoni, che appena l’anno dopo verrà sostituito dal parigrado Nicola Ferrarelli, anch’egli Ufficiale d’Artiglieria, che la comandò sino all’epilogo del 1860.

L’alunno Michele De Rada fu allievo delle due Scuole Militari (San Giovanni a Carbonara e Nunziatella) fra il 1846 e il 1855, anni in cui l’antica Capitale del Regno, come si ricorderà, verrà anch’essa coinvolta nei moti rivoluzionari del 1848, ai quali fece seguito la breve esperienza costituzionale, ma soprattutto la controrivoluzione del maggio ’48, che nella stessa città avrebbe causato non poche vittime.

Ciò, mentre nello scenario italiano si combatteva la 1^ Guerra d’Indipendenza alla quale avrebbe dovuto partecipare anche l’Esercito napoletano, mobilitando un apposito Corpo di Spedizione posto agli ordini del Generale Guglielmo Pepe.

Fu, invece, nel 1855, anno in cui il Real Collegio fu trasferito nella nuova sede di Maddaloni, che il giovane Michele De Rara, promosso al grado di alfiere (equivalente a quello odierno di Sottotenente) di Artiglieria, entrò finalmente in servizio nell’Armata delle Due Sicilie.

 

  1. Michele De Rada, Ufficiale dell’Esercito Napoletano (1851 – 1861).

 

Entrato in servizio nell’Esercito napoletano nel corso del 1855, non conosciamo esattamente quale sia stata la sua iniziale destinazione operativa.

Molto probabilmente fu assegnato ad uno dei due Reggimenti d’Artiglieria che componevano allora l’organizzazione operativa dell’Arma, i gloriosi “Re” e “Regina”, composti ciascuno da uno Stato Maggiore ed uno Minore e da 2 Battaglioni, ognuno dei quali articolato in 2 Brigate e queste, a loro volta, organizzate su 4 Compagnie.

Vi era, ai vertici dell’Artiglieria, una Direzione Generale, affidata ad un Tenente Generale o ad un Maresciallo di Campo, la quale si poggiava su due Ispettori, Brigadieri o Marescialli di Campo, cui spettava la direzione delle varie branche della Specialità nei domini al di qua e al di là del Faro. Le tre Direzioni si articolavano, a loro volta, in Sotto Direzioni, affidate a Tenenti Colonnelli[9].

Il nostro Alfiere De Rada potrebbe essere stato assegnato anche ad una di esse, ma il dato è sconosciuto, non avendo potuto reperire l’incarto matricolare dell’ufficiale.

In quest’ultimo caso, possiamo solo ipotizzare che da quella data in poi anche il nostro Michele De Rada, come era nello spirito dell’Arma dotta, si occuperà di una vasta gamma di attività connesse al proprio ruolo di artigliere, attività fra le quali troviamo anche lo studio delle diverse materie connesse con la fabbricazione, riparazione, distribuzione e conservazione delle armi, munizioni e carreggi occorrenti alle truppe delle varie Armi e Servizi.

Numerosi furono i fatti storici accaduti fra il 1855 e il 1861, anno dell’epilogo del Regno delle Due Sicilie: fatti che tennero l’Esercito Regio sotto pressione costante, soprattutto riguardo alla posizione degli ufficiali di Artiglieria e Cavalleria, dai quali si temevano rigurgiti rivoluzionari.

Il 9 agosto del 1855, nonostante l’attenta vigilanza della polizia borbonica, e mentre l’Esercito piemontese si trovava a combattere in Crimea, il Regno delle Due Sicilie (o meglio la parte più intellettuale di esso) pianse la scomparsa di uno dei suoi più grandi e coraggiosi condottieri, il Generale Guglielmo Pepe, morto in esilio a Torino.

Nato a Squillace (Catanzaro) il 15 febbraio 1783, il Pepe aveva servito nell’Esercito napoleonico ed in quello di Gioacchino Murat, all’epoca del c.d. “decennio francese”. Aveva poi guidato la rivoluzione napoletana del 1820 – 1821. Dopo la sconfitta di Rieti, nel 1821, aveva lasciato una prima volta l’Italia, per poi farvi ritorno nel 1848, onde guidare le truppe Regie napoletane nella 1^ guerra d’indipendenza.

Dopo la resa della Repubblica di Venezia, alla cui difesa aveva partecipato dopo aver rifiutato l’ordine di Re Ferdinando di far ritorno a Napoli, si era rifugiato in Piemonte, sperando di assistere un giorno ai veri destini della Patria, sui quali speravano non pochi ufficiali e sottufficiali delle Armate di terra e di mare delle Due Sicilie.

Due anni dopo, esattamente nel giugno del 1857, dopo che a Pettineo (Messina) erano stati arrestati Salvatore Spinuzza e altri quattro compagni, principali protagonisti, insieme al Barone Francesco Bentivegna, del moto rivoluzionario di Cefalù del 25 novembre dell’anno precedente, il Barone Carlo Pisacane tentò la nota spedizione rivoluzionaria in provincia di Salerno.

Ex ufficiale di Fanteria dell’Esercito borbonico (peraltro aveva seguito la stessa carriera accademica del nostro Michele De Rada, frequentando dapprima la Scuola di San Giovanni a Carbonara e poi la Nunziatella), Carlo Pisacane, con circa 300 volontari, gran parte dei quali liberati dal penitenziario di Ponza, sbarcò nei pressi di Sapri sul finire di giugno, sperando di sollevare quella popolazione contro gli “odiati Borboni”.

Purtroppo l’epilogo di quella storia è conosciuto ai più, anche grazie alla straziante poesia del Mercantini, “La Spigolatrice di Sapri”, la quale ci ricorda che “…eran trecento, eran giovani e forti e son morti”.

Due anni dopo – siamo giunti al 27 aprile 1859 – ebbe inizio la 2^ Guerra d’Indipendenza, che ancora una volta avrebbe contrapposto il Regno di Sardegna all’Impero d’Austria e Ungheria.

Appena un mese dopo, esattamente il 22 di maggio, le Due Sicilie furono chiamate a piangere Re Ferdinando II di Borbone, per alcuni l’odiatissimo “Re Bomba”, appellativo che il Sovrano si era guadagnato in virtù della sua politica estremamente repressiva contro il mondo liberale e progressista, morto a Caserta a causa di un male incurabile.

Di lì a qualche giorno anche il nostro Michele De Rada avrebbe inneggiato alla salita al trono del suo successore, il Principe ereditario Francesco II, sul quale, ad onor del vero, non correvano voci rassicuranti, essendo tacciato di ottusità e di eccessiva bigotteria.

Fra il 1859 e il 1860, come si ricorderà, i destini dell’Italia incominciarono a delinearsi e ciò anche attraverso i plebisciti popolari che sancirono il passaggio di gran parte dei vecchi Stati Preunitari al Regno di Sardegna. Per il completamento di quel processo unitario, il quale si completerà il 17 marzo del 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele II di Savoia, mancava ancora all’appello quel Regno delle Due Sicilie, che tutto sommato sembrava “dormire sonni tranquilli”, nonostante la varie avvisaglie scoppiate qua e là.

Il 10 ottobre del 1859, tanto per fare un esempio, scoppiò a Bagheria (Palermo) un’insurrezione armata condotta dal patriota Giuseppe Campo, che si pose alla guida di una quarantina di uomini.

Ancora una volta la rivolta fu repressa nel sangue dalla polizia borbonica, che disperse i rivoltosi nelle montagne circostanti. Ma ormai il seme della rivoluzione era stato bene impiantato, almeno nel popolo di quel Regno “al di là del faro”, come ci ricorda lo scoppio dell’insurrezione palermitana del 4 aprile 1860.

Giuseppe Garibaldi a Palermo nel 1860

Sebbene soffocata nel sangue in quasi tutta l’isola, la rivolta di Palermo innescherà in Giuseppe Garibaldi, ispirato da Francesco Crispi e Nino Bixio, l’idea di una spedizione militare con un migliaio di volontari.

Ma torniamo al nostro protagonista, osservando che è verosimile ritenere che l’alfiere De Rada abbia percorso i primi anni di carriera in Campania, quasi certamente nella piazzaforte di Capua, ove lo troviamo con certezza alla data del 28 luglio del 1860 con i gradi di Capitano di 2^ classe addetto alla batteria d’Artiglieria di quella storica Guarnigione.

In quel delicatissimo contesto storico, mentre i “Mille” di Giuseppe Garibaldi, sbarcati in Sicilia nel maggio precedente, dopo la presa di Palermo (in quei giorni del maggio ’60 nell’antica Capitale del Regno di Sicilia si trovava lo zio di Michele, il Capitano di Stato Maggiore Francesco De Rada, che ebbe parte attiva nei relativi combattimenti[10]) e dopo aver vinto la battaglia di Milazzo del 20 luglio, si apprestavano ad attraversare lo Stretto di Messina, la cospicua Piazzaforte militare di Capua si trovava agli ordini del Colonnello Antonio Pinedo.

La piazzaforte, oltre alle batterie d’Artiglieria poste agli ordini del Maggiore Gabriele Ussani, poteva contare sull’appoggio di 3 Divisioni di Fanteria ed una di Cavalleria poste agli ordini del Maresciallo Ritucci, coadiuvato dal Generale di Brigata De Corné.

Nel frattempo l’Armata borbonica era stata riordinata. Il nostro Capitano De Rada si trovò, quindi, al comando della 2^ batteria da campagna, che contava su 4 cannoni rigati, reparto inquadrato nella 1^ Brigata del Colonnello Vincenzo Polizzy, la quale, a sua volta, faceva parte della 1^ Divisione del Maresciallo Gaetano Afan de Rivera.

Il Colonello Polizzy, che aveva iniziato pure lui la carriera militare quale Alfiere di Artiglieria, aveva una grande stima del nostro protagonista, tanto da proporlo, per il suo eroismo in battaglia, per una importante decorazione militare, come ricorderemo a breve.

Ebbene, nel settembre – ottobre di quel fatidico anno per la storia del nostro Paese, fu proprio a Capua che si fronteggiarono i Garibaldini, nel frattempo accresciuti di numero, contro l’Esercito regolare delle Due Sicilie. I volontari Garibaldini, circa 3.000, si trovavano agli ordini del Generale ungherese Stefano Türr, nominato da Garibaldi Comandante delle Truppe del Volturno.

In una di queste fazioni, esattamente in quella detta “del ponte di Capua”, sulla destra del Volturno, si distinse per valore e coraggio proprio il nostro Michele De Rada, che da pochi giorni (dall’11 settembre) era stato promosso Capitano di 1^ classe. Questa e altre dimostrazioni di abilità militare gli valsero, come preannunciato, il conferimento sovrano della prestigiosissima Croce di diritto dell’Ordine di San Giorgio, con la seguente motivazione:

“Distintosi nell’attacco del 19 settembre sul ponte di Capua, lo ripeteva il 1° ottobre dirigendo artiglierie nei punti meglio indicati con disprezzo della vita e dette prova di molto sangue freddo militare nel sostenere la ritirata”[11].

Dopo il concentramento delle truppe garibaldine e le vittoriose giornate del 1° e 2 ottobre al Volturno, in mano ai napoletani (circa 20.000 uomini prima della battaglia) rimanevano le sole fortezze di Capua e di Gaeta, ove si sarebbe, di fatto, deciso l’epilogo del Regno dei Borboni. Purtroppo, dopo la sanguinosa battaglia del Volturno, la Guarnigione di Capua si era di molto assottigliata, peraltro privata di viveri e munizioni.

La battaglia del Volturno determinò un “Nuovo ordinamento dell’Esercito” delle Due Sicilie. In tale ambito la 1^ Brigata del neo Generale Polizzy, promosso a tale grado l’8 di ottobre, fu inquadrata nella 2^ Divisione del Maresciallo Won Mechel. Al Capitano Michele De Rada rimase ancora il comando della 2^ batteria da campagna, con la quale avrebbe operato fra Trifilisco e Pontelatone e, quindi, nella pianura di Caiazzo.

Al di là di quanto è stato scritto dai “vincitori”, il valore dei soldati napoletani in quelle circostanze non fu da meno rispetto a quello dei propri fratelli italiani, garibaldini e volontari spesso di origine meridionale, molti dei quali unitisi ai “Mille” da Palermo in su.

La storia di ricorda, infatti, che il Generale Della Rocca, al quale era stato dato ordine di attaccare Capua, posta sotto assedio, nel tentativo di risparmiare vittime, esortò il Generale De Corné ad una resa: capitolazione che non fu però accolta.

Il resto è storia nota. Il 1° novembre 1860 Capua fu oggetto di un aspro bombardamento d’artiglieria, che provocò, oltre alle tante vittime, la capitolazione della stessa piazzaforte, decisa il giorno seguente.

Nel frattempo, mentre Capua si trovava ancora sotto assedio, il Capitano De Rada continuava a far parlare di sé. Come ricorda il Selvaggi:

“Ancora il 10 ottobre impegnò un nutrito fuoco contro la riva opposta del Volturno a Trifilisco impedendo al nemico di poter molestare gli avamposti napoletani e il 19 dello stesso mese riuscì a mettere fuori uso le batterie nemiche situate sul monte S. Jorio uccidendo anche un ufficiale garibaldino”[12].

Riguardo ai combattimenti del 10 ottobre, Giovanni Delli Franci aggiunge:

“Ma dopo il meriggio essi cominciarono a cannoneggiare, e così avvenne che da ambe le parti spesseggiarono colpi oltre a due ore. Il che fece che la mezza batteria num. 2 del capitano de Rada, posta con senno ai mulini di Trifilisco per tener sgombra di nemici la riva opposta, fosse stata in aspre condizioni”[13].

Del comportamento eroico del Capitano Michele De Rada aveva dato testimonianza, molti anni prima del Selvaggi, il frate Giuseppe Buttà, già Cappellano Militare dell’Esercito delle Due Sicilie, autore del celebre libro “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, con il quale raccontò ai posteri la fine del Regno delle Due Sicilie così come fu vissuta da parte borbonica.

Prima di riferire riguardo al valore del nostro ufficiale, il Buttà ne associò il nome a quello di altri prodi artiglieri.

“Della dotta e valorosa artiglieria – scriveva l’autore – trovo segnati tra i più distinti un Colonnello, Gabriele Ussani, un Pasquale Antonelli, un Carlo Corsi, un Paolo Placca, un Ludovico Quandel, un Giuseppe Jovane, un Lorenzo de Leonardis, un Aniello Solofra, un Eduardo Sanvisente, un Michele de Rada, un de Laus, in Enrico Fevot, un Tenente De Blasi. Tutti costoro sono stati la più splendida e gloriosa memoria della giornata del 1° ottobre”[14].

Il Buttà, poi, descrisse minuziosamente quelle che definì “le ultime avvisaglie contro i garibaldini”, le quali si registrarono il 19 di ottobre.

Le riproduciamo in parte.

“Supponendo i regi, che i nemici facessero opere di offesa contro la piazza, il Generale in capo ordinò delle ricognizioni militari, tagliando gli alberi all’estremità del Poligono, ossia il Campo di San Lazzaro. La sera del 18 i garibaldini tentarono di impedire il taglio degli alberi, e ne seguirono scaramucce à posti avanzati. La mattina del 19 i Reggimenti piemontesi e quello inglese attaccarono i regi, e fu un avanzare e retrocedere a vicenda.

Gl’inglesi però sempre ubbriachi, e non conoscendo la posizione della piazza, si cacciarono fin sotto le batterie, e furono decimati dalla metraglia; tra gli altri venne ucciso il capitano Dixon. Il Tenente colonnello Ussani, visti fanti e cavalieri vicino la Casina Ragni, li cacciò a furia di granate: spazzò poi la strada che mena a S. Maria e costrinse il nemico a smettere i cominciati lavori contro Capua.

Intanto l’artiglieria che era a piè del monte Gerusalemme, tirando contro le fortificazioni dè garibaldini, vi cagionò gran danni ed incendiò la Casina Lucarelli. Garibaldi avea fatto alzare le batterie sulla cima del Monte S. Jorio, ove non poteano giungere i colpi lanciati dà regi a causa della troppo elevazione in cui si trovavano i pezzi: purtuttavia il Capitano d’Artiglieria de Rada, mercé alcuni cannoni rigati da 4, diresse tanto bene i colpi contro i nemici fortificati sull’alta montagna di S. Jorio, che ne fu ucciso un uffiziale, costringendo alla fuga gli altri garibaldini”[15].

A questi episodi fece seguito la breve “Campagna del Garigliano”, nel corso della quale il Capitano Michele De Rada risulta ancora inquadrato nella Brigata del Generale Polizzy, sulla cui azione eroica lasciamo però la parola allo storico Selvaggi.

“…il 26 diresse con grande bravura e perizia militare la difesa della retroguardia dell’esercito in ritirata verso il Garigliano. A Cascano batté i piemontesi che tentavano di forzare il passo, perdendo però una favorevole occasione di contrattacco. La sua brigata fu posta in prima linea in difesa del fiume Garigliano” [16].

A seguito di tali cimenti – come ci ricorda sempre il Selvaggi – anche il Capitano De Rada sconfinò nello Stato Pontificio, ai primi di novembre del 1860[17].

Ed ancora:

“Anche nella difesa della posizione di Mola di Gaeta i suoi uomini si distinsero finché, dopo aver ancora combattuto sulle colline antistanti Gaeta, non furono fatti entrare nella piazza. Il 25 novembre lasciò il comando della brigata al generale Bosco rientrato a Gaeta e passò al comando superiore delle artiglierie della piazza ritornando così, dopo dodici anni, al servizio della sua arma di provenienza. Infaticabile, fu una delle anime della difesa di Gaeta”[18].

Francesco II di Borbone

Il 15 febbraio 1861, a Gaeta, allora ultimo avamposto del Regno delle Due Sicilie, dopo 102 giorni d’assedio, Francesco II di Borbone proclamava la resa di quella Guarnigione. In quella stessa giornata l’ormai ex Re delle Due Sicilie s’imbarcava su di una nave francese, ancorata nei pressi di Punta dello Stendardo, che lo avrebbe condotto verso le coste laziali, dalle quali raggiunse Roma, prima tappa del suo lungo esilio.

Un mese dopo, esattamente il 12 marzo, si arrese anche la Guarnigione borbonica della cittadella di Messina, che aveva rappresentato il più tenace nucleo di resistenza borbonica ancora attivo in Sicilia e nell’ormai ex Regno napoletano. Seguiva, il 20 dello stesso mese, la resa della piccola, ma altrettanto ben determinata, Guarnigione di Civitella del Tronto (Ascoli Piceno).

In quel delicato contesto storico, mentre gran parte dei membri del disciolto esercito borbonico aveva fatto ritorno pacificamente alle proprie famiglie, cercando di inserirsi soprattutto nella categoria degli ufficiali del nascente Esercito Italiano, ovvero fra i nuovi apparati burocratici del novello Regno d’Italia, non pochi ufficiali, sottufficiali e soldati rimasti fedeli a Francesco II decisero di combattere fino in fondo gli odiati “piemontesi”.

Ebbe luogo, proprio in quell’ambito, la c.d. “reazione legittimista”, che purtroppo ancora oggi viene associata totalmente al brigantaggio, fenomeno criminale che non si era mai assopito nel Regno delle Due Sicilie, nemmeno al tempo degli stessi Borboni.

Tale reazione, che peraltro attrasse dalla Spagna non pochi ufficiali di fede borbonica, fu condotta, almeno sino al 1863, da agguerrite bande di guerriglieri, composte per l’appunto da ex soldati napoletani e contadini rimasti fedeli a “Re Franceschiello”, come fu definito allora Francesco II soprattutto dalla stampa satirica anti borbonica.

Quella del brigantaggio post unitario è, quindi, un’altra storia, pur ammettendo che dopo la prima fase che contraddistinse i tentativi legittimisti, peraltro favoriti dalla Santa Sede e dalla Corte delle Due Sicilie rifugiatasi a Roma, alcuni dei suoi adepti trovarono più agevole “dedicarsi” a tale fenomeno criminale, piuttosto che arrendersi e finire i propri giorni nella fortezza delle Fenestrelle, nel Nord Italia, ovvero al confino di polizia in Sardegna.

 

  1. Michele De Rada, Ufficiale d’Artiglieria dell’Esercito Italiano (1861 – 1891).

 

Mentre lo storico Selvaggi ricorda che il Capitano Michele De Rada “Entrerà poi nell’esercito italiano dove terminò la lunga carriera militare col grado di maggior generale”[19], molto più precisa sembrerebbe essere la citazione del Generale Carlo Montù, secondo il quale il nostro protagonista, passato nell’Esercito italiano, “…fu nominato capitano d’artiglieria nel 1860”[20].

Tale assunto, in verità, non ci sembra plausibile, avendo ricordato, nel precedente capitolo, che nel novembre del ’60 il Capitano De Rada faceva ancora parte della Brigata Polizzy e che nei primi mesi del ’61 gran parte dell’Esercito borbonico sopravvissuto al Volturno si trovava asserragliato nella fortezza di Gaeta.

L’ingresso del Capitano De Rada nell’Esercito italiano risale, molto probabilmente, al periodo della fondazione dello stesso Esercito italiano, avvenuta, come è noto, il 4 maggio del 1861, allorquando il Ministro della Guerra Manfredo Fanti, con il proclama n. 76, rese nota la decisione di ribattezzare l’Armata Sarda con il nuovo titolo di Regio Esercito.

Fu proprio in tale contesto che nacque l’Arma di Artiglieria, sorta attraverso la fusione dei reparti dell’Artiglieria piemontese con quelli dell’Italia Centrale e Meridionale, come da decreto del Ministro della Guerra in data 24 gennaio 1861[21].

Il Capitano De Rada fu inizialmente destinato alla c.d. “Riserva d’Artiglieria”, ed esattamente al 1° Reggimento Operai e Pontieri d’Artiglieria, con sede a Torino, del quale fu comandante di una delle otto Compagnie che componevano allora il reparto. Qualche anno dopo transitò, con lo stesso grado, nel 2° Reggimento Artiglieria da Piazza, con sede nella stessa Capitale del Regno.

Si giunse così al 1866, l’anno dei nuovi cimenti di guerra.

L’8 aprile di quel fatidico anno, nella speranza di evolvere in positivo la situazione di Venezia e del Veneto, ancora sotto dominio austriaco, l’Italia firmò un trattato con la Prussia, patto che impegnava il nostro Paese ad intervenire in caso di conflitto austro-prussiano.

Fu così che il 30 giugno seguente, a pochi giorni dall’apertura delle ostilità in Germania, ebbe inizio la 3^ Guerra d’Indipendenza, che impegnerà l’Esercito e la Marina italiani, così come i Volontari di Garibaldi, sino all’ottobre seguente, allorquando fu firmata la pace fra Italia e Austria. In virtù di tale accordo, il Veneto, unitamente alla provincia di Mantova e del Friuli, vennero finalmente ad essere parte integrante del Regno d’Italia, così come sancito definitivamente, dopo il Trattato di Vienna, anche dal plebiscito del 21 ottobre dello stesso anno.

Il Comandante Alfonso La Marmora guida le sue truppe durante una carica

Alla 3^ Guerra d’Indipendenza, detta “delle sette settimane”, partecipò anche il nostro De Rada, al comando di una Compagnia del 2° Reggimento Artiglieria, reparto inquadrato nelle c.d. “Truppe di Corpo d’Armata” nell’ambito della nota “Armata del Mincio”, la quale combatté agli ordini del Generale Alfonso Ferrero della Marmora.

Nel 1869 il Capitano De Rada lasciò il 2° Reggimento, essendo stato trasferito al Ministero della Guerra, allora sedente a Firenze, sede della Capitale del Regno. Vi rimase fino al 31 gennaio del 1871, allorquando, promosso al grado di Maggiore, fece ritorno al proprio Reggimento, ove avrebbe operato sino alla promozione a Colonnello.

In quel frangente storico il Comando del 2° Reggimento Artiglieria da Campagna si trovava acquartierato a Capua, al comando del Colonnello Cesare Dho. Il Reggimento era suddiviso in 9 Brigate d’Artiglieria, distinte fra Piazza e Campagna e in 3 Brigate del c.d. “Treno d’Artiglieria”, reparti dislocati in varie località italiane del Centro Sud, dette “stanze”, da Roma a Palermo.

Il Maggiore De Rada ebbe il comando della 3^ Brigata d’Artiglieria da Campagna con sede nella stessa Capua, città molto familiare al nostro protagonista[22]. Da lui dipendevano il Capitano Giuseppe Lattes ed i Luogotenenti Francesco Morsero, Isasca e Corio, responsabili della 2^ e della 4^ Compagnia stanziate fra Capua e Gaeta.

Promosso Tenente Colonnello nel 1877, Michele De Rada fu posto al comando del 12° Reggimento Artiglieria da Campagna, con sede sempre a Capua. Tenne detto incarico anche dopo il settembre del 1883, data in cui, per effetto del Regio decreto del 7 settembre, il 12° Reggimento assunse la denominazione di 16° Reggimento Artiglieria da Fortezza.

In quel medesimo frangente storico il De Rada avrebbe avuto ai suoi ordini un allora poco conosciuto Capitano originario di Milano, tale Carlo Porro, che molti anni dopo avrebbe assunto il prestigioso incarico di Sottocapo di Stato Maggiore del Regio Esercito, per non parlare degli importantissimi demandi politici, fra i quali anche quello di Ministro della Guerra, che assunse dopo il congedo.

Qualche anno dopo il Colonnello De Rada fu destinato, invece, al comando del 1° Reggimento Artiglieria da Campagna, con sede a Foligno, sostituendo così il parigrado Edoardo Rodini[23].

Il nostro protagonista rimase a Foligno sino al 1890, anno in cui fu nominato Comandante dell’Artiglieria da Campagna con sede di servizio a Roma. Fu proprio nella Capitale che l’anno seguente assurse al grado di Maggior Generale (corrispondente dell’odierno grado di Generale di Brigata), continuando però nello stesso incarico.

Così come è stato anticipato in premessa, nei primi mesi del 1891, il Maggior Generale De Rada fu chiamato a sostituire il Maggior Generale Mauro Cappellari della Colomba alla Presidenza del “Consiglio di Disciplina per gli ufficiali della Guardia di Finanza”, incarico che quest’ultimo ricopriva sin dal 1888.

Già Comandante dei Distretti del IX Corpo d’Armata e Presidente del Tribunale Supremo di Guerra e Marina, il Cappellari della Colomba, transitato in posizione ausiliaria proprio nel 1891, propose, con molta probabilità egli stesso, il nome di De Rada al Ministero della Guerra, e ciò avendo considerato gli eccellenti trascorsi di servizio dell’ufficiale messinese, ma soprattutto le doti di studioso di questioni strategiche, con particolare riferimento all’organizzazione dei reparti addestrativi, come specificheremo meglio in avanti.

Istituito ai sensi dell’art. 16 della Legge 8 aprile 1881, n. 149 e dell’art. 35 del Regolamento approvato con R. D. 31 agosto 1886, n. 4042, il Consiglio di Disciplina fu composto, oltre che dal Generale De Rada, anche da altri membri effettivi nelle persone dell’Ispettore Superiore delle Gabelle, Cav. Alessandro Conforti, e dai Tenenti Colonnelli del Regio Esercito Carlo Curti ed Angelo Bandovino. Ne era Segretario il Dottor Palmiro Baseggio, del Ministero delle Finanze.

Il Consiglio aveva il compito di giudicare riguardo alle trasgressioni disciplinari commesse dagli ufficiali delle Fiamme Gialle, le quali, a norma dell’art. 34 del prima citato Regolamento, erano particolarmente numerose, almeno nella loro descrizione normativa.

Si spaziava dall’offesa alla persona del Re alla pubblica manifestazione d’ostilità nei riguardi della monarchia e delle Istituzioni dello Stato; dalla grave mancanza di rispetto con insulti o minacce, alle calunniose relazioni contro i propri superiori o dipendenti o, ancora, alla falsa dichiarazione di scopritore o di capo scopritore di una contravvenzione di finanza o di un rilevatore segreto.

Dovevano, poi, essere giudicati i debiti contratti in misura superiore ai propri mezzi e i debiti contratti con inferiori del Corpo. Violazione disciplinare era anche chiedere o ricevere mance; la connivenza nelle frodi e nel contrabbando, quando non si fosse sfociato in reato; il matrimonio contratto col solo rito religioso; l’ubriachezza abituale, così come le mancanze contro le leggi della moralità e del buon costume, ma anche la codardia e la simulazione di infermità per esimersi dal servizio.

 

  1. Alla guida del “Comitato per il Corpo della Guardia di Finanza” (1891 – 1893).

 

Nel corso del 1891, grazie alla provvida Legge del 14 luglio, n. 398, il Parlamento nazionale varò una delle più importanti riforme che fossero mai state desiderate dal Corpo della Guardia di Finanza.

Con essa, principalmente, si ripartì (a norma dell’art. 8) il contingente della Guardia di Finanza in 8 Comandi di Divisione, con sedi rispettivamente a Milano (1^), Genova (2^), Verona (3^), Ancona (4^), Roma (5^), Bari (6^), Napoli (7^) e Messina (8^).

A capo di ciascuno di essi venne posto un “Ispettore Divisionale di 1^ o di 2^ classe”, gradi che la stessa legge aggiunse alla gerarchia del Corpo, pareggiandoli a quelli militari di Colonnello e Ten. Colonnello. A tali ufficiali superiori furono, quindi, conferite le facoltà punitive, per i Sottufficiali e la Truppa, che precedentemente ricoprivano gli Intendenti di Finanza, ma soprattutto la vigilanza sul servizio svolto dalla Guardia di Finanza.

In tale ambito, la novità più importante fu quella contemplata dall’art. 10, in virtù del quale veniva istituito il c.d. “Comitato del Corpo”, organo collegiale apparentemente simile a quello dell’Arma dei Carabinieri[24], il quale avrebbe contribuito a dare alla Guardia di Finanza un assetto sempre più militare, sperimentando metodologie gestionali che, tempo dopo, avrebbero fatto capo al Comando Generale ed alle sue strutture interne.

Alla sua direzione sarebbe stato posto un Generale del Regio Esercito, nominato dal Ministero della Guerra. Oltre al Presidente, il Comitato risultava composto da un Ispettore Generale e da un Capo di Divisione del Ministero delle Finanze; da un ufficiale superiore del Regio Esercito, anche lui nominato dal Dicastero della Guerra, e da un ispettore Comandante di Divisione della Guardia di Finanza, tratto, quindi, dalle stesse fila del Corpo.

Il cosiddetto elemento militare del Comitato (Presidente e membro tratti dal Regio Esercito) era stato fortemente voluto dalla stessa Guardia di Finanza e da moltissimi suoi esponenti, i quali – come da tradizione – affidarono i loro pareri alla Rivista “Il Monitore delle Regie Guardie di Finanza”.

In un interessante articolo apparso sul “Monitore” del 19 agosto 1891, nel commentare la nuova legge il redattore evidenziò l’opportunità che il Direttore Generale delle Gabelle, il Comm. Castorina, cercasse:

“… per porlo a capo del Comitato del Corpo, un generale dell’esercito, il quale abbia della simpatia per le Guardie di Finanza, giacché, secondo noi, dipenderà in grandissima parte da questo generale che molte questioni, le quali vennero fin qui trattate senza frutto con Ministero della Guerra, abbiano una soluzione favorevole pel Corpo e quale è da esso ardentemente desiderata”.

Fu così che verso la fine di settembre fu lo stesso “Il Monitore” a diffondere fra i suoi lettori la notizia dell’avvenuta nomina dei primi membri del Comitato, ma soprattutto della scelta Ministeriale del suo primo Presidente, per l’appunto il Maggior Generale Michele De Rada.

Il giornale dei Finanzieri, prima di affidare al suo editoriale il giudizio sul primo Presidente, riportò il seguente trafiletto tratto dalla rivista “L’Esercito Italiano”:

“Per le ottime doti di soldato e di gentiluomo che distinguono questo Ufficiale Generale, e per la cultura, la intelligenza e la fermezza di carattere che largamente possiede, siamo certi che egli saprà corrispondere degnamente alla fiducia del Governo nel disimpegno del delicato incarico affidatogli”.

Altrettanto lusinghiere furono le speranze che “Il Monitore” pronunciò in quella medesima circostanza.

“Noi non possiamo che aderire completamente a così lusinghiere parole, e nutriamo piena fiducia, come l’Esercito, che il Generale De Rada saprà degnamente rispondere alla fiducia che ha in lui riposto il Governo. Ma, lo confessiamo, noi abbiamo pure la fiducia che l’ottimo Generale saprà pure rispondere ai voti che gli saranno rivolti da tutto il Corpo, perché esso voglia unire l’opera sua a quella che compie l’egregio Direttore Generale delle Gabelle, onde le condizioni di coloro che fanno parte del Corpo delle Guardie di Finanza siano tali da corrispondere ai servigi che esso rende allo Stato”[25].

In un altro articolo, apparso sul numero del 30 settembre ’91, si legge altresì:

“… abbiamo grande fiducia nell’azione che può essere svolta dal Comitato stesso e speriamo non ingannarci nello sperare che i due egregi ufficiali dell’Esercito, che ne fanno parte, si adopreranno alacremente nel cercare di rendere sempre omogenei i rapporti di fratellanza, che devono esistere fra le truppe nazionali e le Guardie di Finanza facenti parte di tali truppe”.

In linea generale, una delle principali funzioni che il successivo art. 11 demandò al Comitato fu essenzialmente quella del disciolto e già citato “Consiglio di Disciplina per gli ufficiali della Guardia di Finanza”, prevedendone, in tal caso, anche l’aggiunta di un ufficiale del Corpo di grado uguale a quello del giudicando.

In realtà il Comitato fungeva principalmente da organo consultivo “… su tutti i provvedimenti che riguardano il Corpo della Guardia di Finanza e sui mezzi per attuarli”, così come aggiunse l’art. 12 del R. D. n. 577 del 2 ottobre 1891, che stabilì le attribuzioni del Comitato e degli Ispettori Divisionali.

Convocato su proposta del Direttore Generale delle Gabelle, il Comitato si riuniva in base ad uno specifico ordine di convocazione firmato dal Presidente, nel quale si specificava anche l’ordine del giorno.

Il Comitato iniziò le sue attività a far data dal 1° ottobre ’91, data che “…dovrà essere segnata fra le fauste del Corpo”, così come fu ricordato sul numero del 19 agosto 1891 della Rivista “Il Monitore delle Regie Guardie di Finanza”.

L’organo collegiale ebbe sede presso la stessa Direzione Generale delle Gabelle, situata al 1° piano di Via XX Settembre, storico palazzo del Ministero delle Finanze[26]. I suoi membri, nominati dai Ministeri di appartenenza, restavano in carica un anno, con possibilità di essere confermati anche per gli anni successivi.

Unica differenza riguardò il membro interno al Corpo, l’Ispettore Divisionale, il quale, a differenza degli altri, sarebbe stato “delegato di volta in volta e per turno” dal Direttore Generale delle Gabelle, così come espresso nell’art. 7 del richiamato decreto del 1° ottobre ’91.

Con il già citato Decreto Ministeriale del 22 settembre 1891 furono nominati i primi membri del nuovo Organismo collegiale. Pertanto il Comitato risultò così composto:

 

  • Presidente: Maggior Generale R. Esercito Michele De Rada, già Presidente del disciolto “Consiglio di Disciplina per gli Ufficiali della Guardia di Finanza”;
  • Membro: Comm. Bonaldo Stringher, Ispettore Generale del Ministero delle Finanze;
  • Membro: Avv. Vincenzo Mikelli, Direttore Capo della VI Divisione (Personale Guardia di Finanza) del Ministero Finanze;
  • Membro: Maggiore R. Esercito Alessandro Emanuele;
  • Membro: Ispettore Divisionale (Colonnello) della Guardia di Finanza Luigi Brambilla, comandante della 1^ Divisione di Milano[27].

 

Molto importante fu la carica di Segretario, demandata ad un Capo Sezione del dicastero delle Finanze, che per la prima volta fu ricoperta dal Cav. Emanuele Bondì ed, in sua assenza, dal funzionario Giulio Briolo. Il Segretario, così come era accaduto per l’esperienza maturata dai Carabinieri, anticipò essenzialmente, anche se nei soli contenuti tecnici, la carica ricoperta dall’attuale Capo di Stato Maggiore, principale referente della piramide gerarchica dell’odierno Comando Generale della Guardia di Finanza.

Nell’intento di assicurare all’organismo una continua efficienza, il 23 novembre 1891 furono nominati altri membri supplenti nelle persone dell’Ing. Carlo Bergando, Ispettore Generale del Ministero delle Finanze, e del Maggiore Girolamo Pezzani, del 16° Reggimento Fanteria.

Una delle più importanti mansioni attribuite al Comitato fu certamente quella relativa all’immissione in servizio ed alle promozioni nel quadro ufficiali, anche se inizialmente limitate ai soli gradi vertice.

Tali competenze, unitamente alle funzioni disciplinari, anticiparono di quindici anni l’opera che il futuro Comando Generale del Corpo svolgerà, a partire dal 1906, riguardo all’avanzamento ed all’impiego di tale categoria di personale.

Ma per meglio comprendere la rilevanza di detti compiti è opportuno citare il primo comma dell’art. 8 del richiamato R. D. n. 577 del 2 ottobre 1891, il quale afferma:

“Le proposte per la nomina degli ispettori di circolo ad ispettori divisionali sono presentate al Comitato del Corpo dal Direttore Generale delle Gabelle con relazione scritta. Alla relazione devono essere unite le storie di servizio e tutti gli atti esistenti presso il Ministero relativamente agli ispettori di Circolo proposti per la nomina”.

Furono parimenti sottoposte al giudizio del Comitato anche le proposte formulate dal Direttore Generale delle Gabelle per la revoca dall’ufficio, la dispensa dal servizio e la destituzione degli Ispettori Divisionali.

Ma al di là delle trattazioni relative al personale, il Comitato iniziò a discutere e ad esaminare anche questioni riguardanti il Corpo nella sua generalità. Confortato dal giudizio di uomini competenti e pratici del servizio d’istituto, nonché conoscitori dei bisogni materiali e morali del personale, il Comitato riuscirà a risolvere problemi scottanti, molti dei quali erano rimasti irrisolti, o peggio dimenticati, nei cassetti del Direttore Generale delle Gabelle, allo stato di semplici proposte.

Sul piano istituzionale, quindi, una delle prime battaglie condotte dal Comitato, peraltro fortemente sostenuta dallo stesso Generale De Rada e dall’Ispettore Divisionale Brambilla, fu quella della risoluzione di alcuni problemi di indole militare. Fra di essi quello della disciplina e della parificazione dei gradi della “bassa forza” della Guardia di Finanza con quelli dell’Esercito, resasi ormai necessaria e non solo per rispondere ad una mera esigenza di natura morale.

Su tale fronte operò soprattutto il Generale De Rada, il quale, forte della propria esperienza maturata sul campo, affrontò la propria carica con convinta autorevolezza, facendosi subito intermediario fra i Ministeri della Guerra e delle Finanze affinché si addivenisse, e in tempi brevi, sia all’anzidetta parificazione, che ad altri lusinghieri risultati.

Il De Rada apportò il suo fattivo contributo anche nella compilazione del “Regolamento di disciplina e di servizio”, la cui materiale redazione fu affidata ad un emergente Ispettore delle Guardie di Finanza, Federico Barbieri, che il Generale De Rada aveva conosciuto qualche tempo prima a Messina.

La parificazione dei gradi del Corpo con quelli del R. Esercito e dell’Armata (Marina), ivi compresa l’utilizzazione dei relativi distintivi militari, fu stabilita con il R. D. n. 99 del 27 maggio 1892, lo stesso provvedimento con il quale la Guardia di Finanza – sempre grazie alle proposte del Comitato – ottenne l’appellativo di Regia, considerata allora massima espressione della Sovrana considerazione.

Non meno importante fu, inoltre, il varo di un serio programma teso ad una migliore e più proficua istruzione e preparazione militare delle guardie, fattori indispensabili per un Corpo, come quello dei Finanzieri, chiamato sì a concorrere, con appositi reparti mobilitati[28], alla difesa militare della Nazione, ma soprattutto a mantenere un contegno più severo e marziale, consono con i nuovi doveri sanciti dalle norme regolamentari e disciplinari.

In virtù di ciò operarono, quindi, sia le nuove disposizioni circa l’addestramento militare, da organizzarsi periodicamente presso i vari Comandi di Circolo (corrispondenti agli odierni Comandi Provinciali della G. di F.), sia l’attività ispettiva, posta in essere dai Comandanti Divisionali e dallo stesso Presidente del Comitato.

Non v’è dubbio, però, che il contributo più decisivo che il Presidente De Rada apportò al settore dell’addestramento fu rappresentato da un suo egregio studio concernente il reclutamento degli ufficiali, che circa tre anni dopo portò alla fondazione della Scuola Sottufficiali di Caserta.

La valenza di tale studio è confermata anche da un articolo a lui dedicato dalla rivista del Corpo, a pochi mesi dalla sua morte, laddove si legge:

“… elaborò un progetto inteso a migliorare il reclutamento degli ufficiali, che venne più tardi attuato in buona parte, colla istituzione della Scuola di Caserta, nella quale egli però opinava che parte degli allievi venissero reclutati, mediante concorso, tra i giovani provvisti di licenza liceale o di istituto tecnico, anziché tra i sottufficiali del Corpo”[29].

Non era, questo, un settore sconosciuto al Generale De Rada, il quale, come si è già scritto in precedenza, era particolarmente esperto nella materia dell’addestramento e dell’istruzione in generale. Come ricordò il Montù:

“Il nome del De Rada è soprattutto ricordato perché egli fu uno dei più convinti propugnatori della Scuola Unica per la formazione degli ufficiali delle varie Armi, ed all’uopo con numerosi articoli su riviste e giornali egli si fece tenace paladino di una vasta riforma degli Istituti militari”[30].

Pur tuttavia, la sua idea riguardo ad una particolare formula di assunzione degli ufficiali verrà consacrata alcuni anni dopo la sua morte, esattamente nel 1908, allorquando, in virtù dell’art. 6 della legge n. 427 del 12 luglio, al reclutamento degli Allievi Ufficiali potevano concorrere, per un terzo dei posti in bando, anche i giovani forniti di licenza liceale o di diploma di Istituto Tecnico che avessero compiuto 18 anni d’età e che non avessero superato il 25°.

Non solo, ma il Generale De Rada, compresa l’importanza dell’alta carica affidatagli, agì come un vero Comandante della Guardia di Finanza, piuttosto che da Presidente di un Organo Collegiale.

Fu egli, infatti, la prima “autorità centrale” del Corpo a concepire ed utilizzare lo strumento delle ispezioni, che in seguito verrà demandato a competenti ufficiali del Regio Esercito, specie dopo l’ennesima soppressione dei Comandi Divisionali.

Una delle sue prime “visite ispettive” fu eseguita nella sua città natale, Messina, il 7 aprile del 1892. L’evento, di cui vi è ampio reportage sul numero del 27 aprile ’92 della Rivista “Il Monitore”, riguardò non solo il Comando del locale Circolo, ma anche il Deposito Allievi guardie, che in tale città operava sin dal lontano 1881 e che avrebbe avuto anche una notevole importanza anche riguardo all’addestramento del personale adibito al Contingente di mare[31].

Fu, quella, anche l’occasione per passare in rassegna un apposito reparto in armi costituito da una Compagnia di cento uomini con in testa una piccola fanfara.

A tal riguardo, l’articolo precisa:

“Il giorno 7 dunque, il generale De Rada in tenuta giornaliera col proprio aiutante di campo e accompagnato dall’ispettore divisionale, cav. Barbieri, e dall’ispettore di Circolo, signor Baroncelli, i quali, s’intende, vestivano la divisa, si presentò al Deposito per la rivista anzidetta (.) Dopo che il Generale le ebbe passate in rivista, le guardie eseguirono il maneggio d’armi e la scuola di compagnia sfilando poi dinanzi all’ufficialità rendendole gli onori militari”.

Il Generale De Rada non dimenticò di essere il Presidente del Comitato anche in altre circostanze nelle quali operava come alto ufficiale dell’Esercito. Ne è prova quanto avvenne l’8 giugno 1892, allorquando, recatosi a Terni per presiedere agli esami della Scuola d’Artiglieria, volle conoscere il comandante della locale Brigata delle Guardie di Finanza, Brigadiere Guglielmo Di Marco.

Convocato il Sottufficiale presso il quartiere “San Domenico”, sede del 13° Reggimento Artiglieria, il De Rada:

“… volle essere minutamente informato dell’andamento, della disciplina e del servizio del personale, mostrando vivo interessamento e facendo lusinghiere promesse per un più felice avvenire del Corpo, segnatamente per ciò che concerne i suoi diritti militari di fronte al recente pareggiamento di rango col R. Esercito e la R. Marina”[32].

All’infaticabile Generale si devono anche il tentativo di estendere al Corpo l’uso delle stellette militari e l’importante studio sulla divisa dei finanzieri.

Riguardo alle stellette è doveroso ricordare che fu il De Rada in persona che, nel 1892, preparò la bozza di un Regio Decreto con il quale si doveva estendere al Corpo l’uso delle stellette a cinque punte, così come previsto dal R. Decreto del 13 dicembre 1871 per tutti i Corpi sottoposti a giurisdizione penale militare. Il tentativo naufragò per volontà dell’allora Direttore Generale delle Gabelle, Comm. Giuseppe Castorina, il quale annotò sull’appunto la frase: “Non è ancor tempo!”[33].

Per quanto riguarda, invece, la nuova divisa, l’attuazione pratica di un suo studio trovò accoglimento, alcuni anni dopo, con l’approvazione delle “Istruzioni sulla divisa della Guardia di Finanza”, avvenuta il 1° maggio del 1897.  In tale ambito:

“… egli studiò e propose utili ed artistiche modificazioni nell’uniforme, che incontrarono generale gradimento, specie quelle apportate al cappello”[34].

E’ chiaro il riferimento al nuovo fregio del Corpo (cornetta da cacciatore, granata con fiamma e fucili incrociati), adottato con la circolare n. 2864 della Direzione Generale delle Gabelle in data 24 agosto del 1892, in sostituzione dello Stemma Sabaudo previsto dal Regolamento delle Guardie Doganali del 1862.

Frattanto, con Decreto Ministeriale del 18 ottobre 1892 la composizione dei membri del Comitato fu nuovamente variata, con la nomina, a decorrere dal 1° ottobre, dell’Ispettore Generale del Ministero delle Finanze e dell’ufficiale superiore del Regio Esercito, rispettivamente nelle persone del Comm. Cesare Gallina e del Maggiore Luigi Bocca, in servizio presso il Distretto Militare di Roma, quest’ultimo voluto dallo stesso Generale De Rada.

Fra le importanti innovazioni alle quali lavorò il Comitato vi fu certamente il varo del R. D. n. 147 del 9 marzo 1893, con il quale fu istituto sui laghi Maggiore e di Garda un servizio speciale per la vigilanza finanziaria di confine, considerata ancora oggi una delle tappe decisive della storia del “Servizio Navale della Guardia di Finanza”.

Molte altre iniziative avrebbe voluto portare avanti il nostro protagonista, se non fosse intervenuto l’inevitabile appuntamento con il fatidico commiato dalla vita militare.

La preziosa opera del Generale De Rada fu, infatti, interrotta dal suo collocamento in congedo, nella cosiddetta “posizione ausiliaria”, così come cita il Bollettino Militare del 22 luglio 1893. Il successivo 1° agosto terminava così un biennio denso di soddisfazioni per la Guardia di Finanza, ma soprattutto per i Finanzieri, che dedicheranno al Generale non poche lettere di ringraziamento e toccanti articoli pubblicati su “Il Monitore”.

La rivista, nel suo numero del 26 luglio, diede la ferale notizia ai propri lettori, riportando la voce raccolta dal “Bollettino Militare” del 22 luglio:

“Noi che sappiamo quanta parte abbia avuto l’ottimo generale nell’attuazione della riforma recentemente determinata pel Corpo della Guardia di Finanza – concluse la corrispondenza – mentre esprimiamo il rammarico che egli debba così cessare troppo presto dalla carica di Presidente del Comitato del Corpo, gli porgiamo un rispettoso saluto anche in nome dei nostri lettori, con l’augurio che nella nuova vita, cui sta per entrare, possa trovare quel riposo e quella tranquillità tanto meritatamente guadagnatisi”[35].

Il congedo del Generale De Rada lasciò il Corpo con il classico “amaro in bocca”, anche perché, come si diceva prima, tali e tante erano le iniziative che l’amato ufficiale aveva in animo di compiere, e che purtroppo non furono “raccolte”, almeno nell’immediato, dai suoi successori.

Dal più volte citato articolo della “Rivista Illustrata” del 1901 apprendiamo, tanto per fare un esempio calzante, di un altro importantissimo progetto di riordino del quale si era occupato il nostro De Rada, progetto che vedrà la luce solo nel biennio 1906 – 1907, grazie all’ultimo Presidente del Comitato, il Maggior Generale Tullo Masi.

“Il generale De Rada – termina l’articolo del 1° marzo – frà tanti progetti che andava maturando nella sua mente, eravi anche quello dell’autonomia e della militarizzazione del Corpo della R. Guardia di Finanza, a similitudine della benemerita Arma dei Carabinieri Reali; ma l’opera del bravo Generale cessò troppo presto, lasciando in tutto il Corpo il più grato ricordo di lui”.

La pesante eredità di Michele De Rada fu raccolta dal Maggior Generale Giuseppe Borgetti[36], nuovo Comandante dell’Artiglieria da Campagna di Roma, nominato con Decreto Ministeriale del 2 agosto 1893, probabilmente su segnalazione dello stesso De Rada, che apparteneva alla stessa Arma.

La notizia fu segnalata a tutto il Corpo da un trafiletto apparso su “Il Monitore delle Guardie di Finanza” del 29 settembre 1893, con il quale, nell’indirizzare un saluto ed augurio di buon lavoro al nuovo Presidente, fu rivolto un ultimo pensiero all’indimenticabile Generale siciliano[37].

 

  1. Il congedo dalle armi e l’epilogo dalla vita (1893 – 1901).

 

Per un uomo come Michele De Rada, abituato alla vita operativa e, soprattutto, a vivere in contesti sociali ampi e variegati, quali potevano essere i Reggimenti o i Comandi Superiori del Regio Esercito d’allora, il posizionamento in congedo, intervenuto all’età di 55 anni, non dovette essere di certo un fatto di per sé positivo.

A differenza di tanti altri suoi colleghi ufficiali, i quali si abbandonarono ad una vita fatta di esclusivo riposo e di soddisfazioni familiari, il Generale De Rada preferì trovare qualcos’altro da fare.

Si guardò attorno e, piuttosto che darsi alla politica, ambiente che per tradizione  attraeva non pochi Generali e Ammiragli, spesso anche in servizio, occupando gli scranni di Camera e Senato, decise di dedicarsi all’associazionismo militare. Entrò così a far parte della sezione Romana della “Società dei Militari in Congedo”, che allora aveva sede in Piazza del Grillo ed alla quale, come vedremo a breve, dedicherà con passione il resto della sua vita.

La Società era sorta sul finire dell’Ottocento e fra il 1891 e il 1893 aveva una diffusione particolarmente capillare, con numerose Sezioni sparse in tutto il Paese. Non poche erano, poi, quelle operanti nello stesso Lazio, soprattutto nei paesini dei Castelli Romani, Sezioni con le quali il De Rada avvierà un serio programma di collaborazione.

Ad influenzare le proprie scelte fu un fatto particolare. Il Generale De Rada era rimasto, infatti, particolarmente colpito dal successo riscontrato a Frascati, la domenica del 24 settembre del 1893, dalla solenne cerimonia di inaugurazione del monumento in onore del Generale Garibaldi, evento organizzato dal “Circolo Aurelio Saffi” ed al quale avevano preso parte proprio alcune sezioni stanziate sui Castelli della stessa “Società dei Militari in Congedo”.

Divenuto Presidente nel giro di pochi mesi, il De Rada unirà gli sforzi della propria Associazione a quelli di altri nobili Sodalizi che operavano allora nella Capitale, primo fra tutti il celebre “Comitato permanente per i festeggiamenti a Porta Pia”, allora presieduto dal Deputato Gregorio Valle, costituito da commercianti ed abitanti, onde organizzare annualmente i festeggiamenti nei quartieri di Porta Pia e Salaria, gli stessi che maggiormente vissero, nel settembre 1870, le epiche giornate della liberazione di Roma[38].

Nel corso del 1895 troviamo, quindi, il Generale De Rada fra i membri del Comitato Generale, sorto nel frattempo al fine di solennizzare il 25° anniversario della liberazione di Roma. A tale iniziativa era seguito, poi, il varo del progetto di legge, presentato alla Camera dei Deputati l’11 luglio di quello stesso anno da parte dell’Onorevole Vischi, onde far riconoscere la data del 20 settembre quale “giorno festivo agli effetti civili”.

Il Comitato si sarebbe avvalso di una “Commissione Esecutiva”, che verrà affidata alla Presidenza di Menotti Garibaldi, figlio prediletto dell’Eroe dei Due Mondi, nella quale il Generale De Rada entrerà a far parte il 28 febbraio dello stesso ’95. Alla medesima Commissione gli offrirà, sin da subito, tutta la sua fattiva collaborazione, ma anche il suo ingegno di abile organizzatore di uomini e mezzi[39].

A lui si dovette anche l’organizzazione, sempre nella Capitale, del 1° raduno nazionale delle numerose rappresentanze di tutte le Società Militari stanziate nel Regno, operazione che trasformò la cerimonia del successivo 20 settembre 1895, la prima in assoluto, in un vero e proprio tripudio di successo, consentendo a migliaia di ex combattenti del glorioso Risorgimento nazionale di mettere piede per la prima volta nella bellissima Città Eterna.

Per l’occasione, le cronache ci ricordano che fu anche coniata una bella medaglia ricordo in bronzo, riproducente, da un lato, l’effigie di Re Umberto I e, dall’altro, gli estremi dell’evento.

Il Comitato Esecutivo per il raduno nazionale, di cui il De Rada fu Presidente, si riunì nei nuovi locali occupati dalla “Società dei Militari in Congedo”, esattamente al 2° piano di Via d’Azeglio, n. 11, come ricorda una corrispondenza pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale del Regno”, con la quale fu annunciata sia l’iniziativa del raduno stesso che le varie istruzioni rivolte agli aderenti[40].

Il 25° anniversario di Porta Pia fu, dunque, celebrato con numerose manifestazioni patriottiche in tutto il Paese. Nella Capitale, oltre all’inaugurazione a Porta Pia di una colonna commemorativa, si toccò il culmine allorquando fu inaugurato, al Gianicolo, il monumento a Giuseppe Garibaldi, uno dei protagonisti principali del Risorgimento italiano, monumento attorno al quale si strinsero centinaia di ex garibaldini, ivi compresi, per fatalità,  i tanti volontari dell’Esercito Meridionale contro i quali aveva dovuto combattere lo stesso De Rada fra il settembre del 1860 e il febbraio del 1861, allorquando vestiva l’uniforme di ufficiale d’Artiglieria borbonico.

Come ricorda un articolo del 1905, dedicato all’inaugurazione del monumento funebre del De Rada, questi:

“Passato per limite d’età in posizione ausiliaria, fu in Roma uno dei più ferventi organizzatori di manifestazioni patriottiche”[41].

In effetti, il Presidente De Rada lavorò moltissimo affinché i militari in congedo fossero parte attiva di quella ventata di patriottismo di cui il Paese aveva bisogno, soprattutto in quello scorcio di secolo nel quale le tensioni sociali erano all’ordine del giorno, con i conseguenti pericoli che da ciò derivavano.

In tale direzione moltissime furono le cerimonie patriottiche di cui il De Rada si fece promotore, eventi indirizzati soprattutto ai giovani, i quali andavano certamente educati a quel necessario “sentimento nazionale”, che era il cemento e la garanzia più concreta per una migliore tenuta del Paese.

L’essersi perfettamente “amalgamato” con la tradizione militare dello Stato unitario, che in quello scorcio di secolo risentiva ancora dell’influenza piemontese, fece del Generale Michele De Rada un uomo stimato in tutti i consessi sociali, compresa la stessa Corte Sabauda. Fedele al giuramento prestato nel lontano 1861, egli operò sempre per il bene della sua amatissima Forza Armata, che evidentemente non considerò affatto lontana da lui dopo il congedo dal servizio attivo.

Come avevamo anticipato nelle pagine precedenti, il Generale De Rada continuò a lavorare per l’Esercito e per l’Arma d’Artiglieria, sia come scrittore che come Presidente della “Società Militari in Congedo”.

Riguardo al primo aspetto osserviamo che, così come evidenzia il Montù nella biografia a lui dedicata, nel capitolo riguardante gli “Artiglieri Scrittori”, il Generale De Rada fu autore di vari articoli e saggi pubblicati dalla celebre “Rivista Militare Italiana”, citandone peraltro, in nota, uno fra i più importanti che aveva per titolo “Artiglieria tecnica e ingegneria militare”, pubblicato nel corso del 1899[42].

Nello stesso anno, il De Rada diede alle stampe, per i tipi della Casa Editrice Italiana, un rarissimo pamphlet dal titolo “Quadri tecnici e quadri combattenti dell’Artiglieria: Lettera al Tenente Generale Achille Afan de Rivera, Ispettore d’Artiglieria”, con il quale si fece promotore, oltre che di critiche, soprattutto di innovativi suggerimenti onde migliorare le condizioni operative e d’impiego della sua amata Arma d’appartenenza[43].

Per quanto attiene al secondo aspetto, quello che lo vedeva presiedere l’importante sodalizio di ex militari, occorre aggiungere che decisiva fu la sua opera, ma soprattutto la sua vicinanza al Regio Esercito in taluni momenti dolorosi della propria storia, ovvero in situazioni generali nelle quali la Forza Armata fu oggetto di speculazioni, critiche e assalti giornalistici.

La storia ci ricorda, tanto per fare degli esempi, che il 1° marzo del 1896 le truppe italiane (16.000 uomini) furono disastrosamente sconfitte ad Adua, nel corso di uno scontro con circa 70.000 etiopi, al termine del quale il Regio Esercito lasciò sul campo ben 4.000 dei suoi uomini. L’eccidio innescò, in molte città italiane, violente dimostrazioni contro la guerra e contro il Governo Crispi, ma anche contro i vertici della Forza Armata.

La “Società dei Militari in Congedo”, oltre ad esprimere la propria solidarietà al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, si prodigò come poté in favore delle vittime, proponendo una colletta nazionale da distribuire alle famiglie.

Vennero, poi, i torbidi giorni della primavera del 1898, allorquando, a seguito dell’ennesimo rincaro del pane, scoppiarono tumulti e agitazioni popolari in molte località del Paese.

Queste, a Milano, innescarono la durissima reazione militare da parte delle truppe del Generale Bava Beccaris, Comandante del locale Corpo d’Armata, il quale aveva assunto pieni poteri con la proclamazione, disposta il 7 di maggio, dello stato d’assedio. Il Bava Beccaris ordinò di sparare sulla folla, causando la morte di 80 persone, secondo le cifre ufficiali, mentre sarebbero state oltre 300 secondo gli organizzatori del tumulto.

Le masse, spesso fomentate dai movimenti anarchici e da taluni partiti di sinistra, inasprirono il proprio giudizio contro il Regio Esercito, specie dopo aver appreso che il Sovrano Umberto I, il 6 giugno di quello stesso anno, aveva conferito al Generale Bava Beccaris addirittura il Gran Cordone dell’Ordine Militare di Savoia.

Ancora una volta il Generale Michele De Rada si adoperò con la propria Società nel “placare” gli animi di coloro che remavano contro l’Esercito italiano. Organizzò così cerimonie, propose l’erezione di monumenti, scrisse articoli, cercò di fare l’impossibile, insomma, pur di riguadagnare consensi a favore della propria grande famiglia in armi.

Analogamente, si adoperò nel condurre i propri associati al Pantheon, onde rendere omaggio alla tomba del suo amato Re, Umberto I, che, come si ricorderà, fu assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci a Monza, il 29 luglio del 1900. Il pellegrinaggio alle Reali Tombe fu, da quel preciso istante, un vero e proprio atto di fede, un dovere che di lì in avanti verrà assunto anche dagli altri Sodalizi operanti in tutta la Penisola.

Giungiamo così al fatidico anno 1901, che vide il nostro Generale attivamente impegnato in una delle sue encomiabili iniziative: l’erezione a Cesena di un monumento a ricordo di Sua Altezza Reale il Principe Amedeo, Primo Duca di Savoia e già Re di Spagna dal 4 dicembre 1870, che dal febbraio 1872, lasciata Madrid e il Regno, viveva in Italia quasi in esilio.

Terzogenito di Re Vittorio Emanuele II, il Duca d’Aosta si era meritato una Medaglia d’Oro al Valor Militare, conseguita sul campo nel corso della battaglia di Custoza (3^ guerra d’indipendenza), e si era spento prematuramente nel 1890 nella sua amata Torino, ove era nato nel 1845.

L’idea del monumento, così come il relativo progetto, che sarebbe stato eseguito dal celebre scultore Vito Pardo, furono illustrati a Re Vittorio Emanuele III nella giornata dell’11 maggio, sempre del 1901, così come ci ricorda un breve trafiletto pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia”.

“S.M. il Re – evidenzia la cronaca – ricevette ieri il senatore Monteverde, il generale De Rada ed il capitano Primo Stefanelli, componenti la Commissione pel monumento a S.A.R. il Principe Amedeo in Cesena. Il senatore Monteverde presentò a S.M lo scultore Vito Pardo, autore del monumento, ed il presidente Stefanelli informò S.M. dell’opera compiuta che sarebbe inaugurata l’11 settembre durante le manovre del Corpo d’Armata in presenza dei RR. Principi. S.M., ringraziando, si mostrò oltremodo soddisfatto di questo omaggio della Romagna alla memoria del Suo compianto zio”[44].

Ma, oltre a questa nobile iniziativa, il Generale De Rada “…fu l’iniziatore di quello storico pellegrinaggio alla tomba di Umberto, che riuscì un vero avvenimento nazionale; la morte non gli permise di vedere compiuto il suo nobile disegno”, così come ricorda il già citato articolo pubblicato, nel 1905, in occasione dell’inaugurazione della sua tomba[45].

Ebbene, quella dell’11 maggio fu l’ultima “uscita pubblica” del Generale Michele De Rada, Presidente della gloriosa “Società dei Militari in Congedo”.

Alcuni giorni dopo, esattamente il giorno 17 maggio, il suo cuore si fermava per sempre. Aveva da pochi mesi compiuto 63 anni di vita e bramava di vedere realizzata quella che doveva essere la sua “ennesima fatica”.

Il Generale De Rada fu salutato da parenti e amici, fra i quali l’ormai Colonnello Carlo Porro, che dall’anno precedente si trovava a Roma presso il Comando del Corpo di Stato Maggiore. Le esequie si tennero il giorno seguente. La salma fu, quindi, tumulata presso il cimitero monumentale del Verano. A tal riguardo, purtroppo, non disponiamo di ulteriori particolari, sia riguardo all’evento in sé, sia riguardo alla famiglia dell’estinto.

L’ultimo atto che riguardò il compianto Generale De Rada porta la data del 1° giugno del 1905, allorquando, come anticipato poc’anzi, fu inaugurato, presso il Cimitero del Verano, il monumento funebre in suo onore.

Opera del suo carissimo amico, lo scultore Vito Pardo, il monumento fu fortemente voluto da un apposito Comitato, presieduto dal già citato Onorevole Giulio Monteverde. Alla toccante cerimonia intervennero una rappresentanza dei Sovrani d’Italia, i Presidenti di Camera e Senato, ma soprattutto una numerosa schiera di ufficiali d’Artiglieria. L’elogio funebre fu letto con vibrante affetto, come ricordano le cronache del tempo, dal Deputato Santini.

Da quella data in poi, a parte la biografia riportata nel 1941 dal Generale Carlo Montù nella sua monumentale opera editoriale dedicata alla storia dell’Artiglieria italiana, del Generale Michele De Rada non si sentì più parlare, circostanza dolorosa che purtroppo accomuna gran parte degli uomini illustri che hanno contribuito, con il loro ingegno, con il loro altruismo e con il loro valore, a rendere il Paese grande al cospetto del mondo intero.

Michele De Rada fu tutto questo, come speriamo di aver saputo raccontare attraverso questo modesto lavoro di ricerca. Un uomo a tutto tondo, che seppe servire il Paese con grande dedizione e coraggio e che contribuì enormemente a rinsaldare i rapporti fra le Forze Armate e la cittadinanza.

Un uomo, infine, che, nel terminare la sua carriera tra le fila delle Fiamme Gialle, seppe seminare il germe del progresso, consentendo al Corpo della Guardia di Finanza di percorrere vie nuove, ma soprattutto di raggiungere altissime mete che fino al 1891 sembravano veramente impossibili.

L’autonomia e la militarità, ancora oggi baluardo di questa nobile Istituzione dello Stato, furono le sue ultime battaglie, prima del congedo. Ciò nonostante le sue idee sopravvissero e furono raccolte da un altro illuminato Presidente del “Comitato per il Corpo”, il Generale Tullo Masi, al quale, però, la sorte assicurò ben altra pubblicità e fama.

L’auspicio con il quale concludiamo questo contributo è quello di aver colmato una lacuna, certi di aver finalmente onorato Michele De Rada, un grande Generale italiano.

—————————————————————————————————————

[1] “Almanacco Reale del Regno delle Due Sicilie per l’anno bisestile 1840”, Stamperia Reale – Napoli, anno 1840, pag. 432.

[2] Filadelfio Mugnos, “Teatro genealogico delle famiglie nobile titolare feudatarie ed anche nobili del fedelissimo Regno di Sicilia viventi e estinte”, Edizione Raffaele Coppola – Palermo, anno 1647, pag. 55.

[3] Cfr. “Almanacco Reale del Regno delle Due Sicilie pel anno 1855”, Stamperia Reale – Napoli, anno 1855, pag. 24.

[4] Nel Regno delle Due Sicilie era stato stabilito, con Decreto Reale del 10 gennaio 1843, che l’istruzione elementare sarebbe stata interamente affidata ai Vescovi, che ne avrebbero avuto l’esclusiva direzione nell’ambito delle loro Diocesi.

[5] Cfr. “Ruoli dè Generali ed Ufficiali attivi e sedentanei del Reale Esercito e dell’Armata di Mare di Sua Maestà il Re del Regno delle Due Sicilie”, Reale Tipografia Militare – Napoli, anno 1857, pag. 163.

[6] Vgs. Attilio Zuccagni Orlandini, “Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole”, vol. XI, Firenze – anno 1844, pagg. 655, 656 e 797.

[7] Roberto Maria Selvaggi, “Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito Napoletano del 1860-61”, Edizione Grimaldi & C. Editori – Napoli, anno 1990, pag. 139.

[8] Attilio Zuccagni Orlandini, op. cit., pag. 655.

[9] Giancarlo Boeri – Piero Crociani – Massimo Fiorentino, “L’Esercito Borbonico dal 1830 al 1861”, Tomo I, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito – Roma, anno 1998, pag. 84.

[10] Vgs. a riguardo “1860. Documenti riguardanti la Sicilia – n. 1 Corrispondenza particolare riservata tra Sua Maestà il Re del Regno delle Due Sicilie ed il Sig. Principe di Castelcicala, Luogotenente Generale del Re in Sicilia, dal 5 aprile al 18 maggio”, pagg. 320 e 327.

[11] Massimo Cardillo, “Onore al soldato napoletano”, Edizione Lulu.Com. anno 2016, pag. 198.

[12] Roberto Maria Selvaggi, op. cit., pag. 139.

[13] Giovanni Delli Franci, “Cronica della Campagna d’Autunno del 1860 fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano dall’Esercito Napolitano”, parte 2^, Edizione Angelo Trani – Napoli, anno 1870, pag. 99.

[14] Giuseppe Buttà, “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memoria della rivoluzione del 1860 al 1861”, estratto dal giornale “La Discussione” – Napoli, anno 1875, pag. 507.

[15] Ibidem, pagg. 576 e 577.

[16] Roberto Maria Selvaggi, pag. 214.

[17] Ibidem, pag. 139.

[18] Ibidem, pag. 214.

[19] Roberto Maria Selvaggi, op. cit., pag. 139.

[20] Carlo Montù, “Storia della Artiglieria Italiana – parte III (dal 1870 al 1914, Vol. VIII”, Edizione della Rivista d’Artiglieria e Genio – Roma, anno 1941, pag. 2718.

[21] L’Arma fu composta da 8 Reggimenti, di cui il 1° di operai, il 2°, 3° e 4° da piazza o fortezza (inteso come postazione) e dal 5° all’8° da campagna.

[22] Dal “Giornale d’Artiglieria, pubblicato d’ordine del Ministero della Guerra” – annata 1872, Stamperia dell’Unione Tipografico-Editrice Torinese – Torino, anno 1872, pag. 22

[23] Da “L’Esercito e i suoi Corpi – Sintesi Storica”, Vol. 2°, Tomo II, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito – Roma, anno 1973, pag. 542.

[24] Il Comitato dell’Arma dei Carabinieri Reali era stato istituto con R. D. del 24 gennaio 1861, in sostituzione del Comando Generale. Composto da soli ufficiali dell’Arma, il Comitato operò fino al 16 novembre 1882, data in cui fu soppresso in seguito al ripristino della carica di Comandante Generale.

[25] Corrispondenza dal titolo “Il Presidente del Comitato del Corpo”, in “Il Monitore delle Regie Guardie di Finanza”, n. 38 del 23 settembre 1891, pag. 1.

[26] R. D. n. 466 del 1° agosto 1891, che determina il giorno in cui andranno in vigore i provvedimenti per il contrabbando e per la Guardia di Finanza.

[27] Luigi Brambilla (Bozzolo 1836, Milano 1894). Entrato in servizio il 28 aprile 1858, raggiunse nel Corpo l’apice della carriera. Superiore leale ed onesto, ebbe il comando di importantissimi Circoli di confine. Concluse la sua lunga carriera e, con essa, la presenza terrena il 26 gennaio 1894, allorquando, mentre ricopriva la carica di Comandante della Divisione di Milano, fu colto da malore nel corso di un giro di ispezione al Circolo di Sondrio.

[28] Il R. D. del 28 ottobre 1882 stabilì che, in caso di mobilitazione, il Corpo avrebbe mobilitato 23 battaglioni, posti al comando di ufficiali superiori del R. Esercito, e 95 Compagnie, poste invece al comando di un Sotto Ispettore o di un Tenente di 1^ classe dei finanzieri.

[29] “Il Tenente generale comm. Michele De Rada”, in “La Rivista illustrata della R. Guardia di finanza italiana”, numero del 1° marzo 1901.

[30] Carlo Montù, op. cit., pag. 2718.

[31] A tal riguardo vgs. Gerardo Severino, “Splendore di Fiamme Gialle a Messina. Storia di una perduta Scuola per Allievi Guardie di Finanza (1881 – 1908)”, Gangemi Editore – Roma, anno 2016.

[32] Corrispondenza dal titolo “Il Generale De Rade e il Corpo”, in “Il Monitore delle Guardie di Finanza”, numero del 22 giugno 1892, pag. 2.

[33] L’episodio è riportato sul numero del 25 agosto 1906 della Rivista “Il Finanziere”, in un reportage storico dedicato all’autonomia del Corpo.

[34] “Il Tenente generale comm. Michele De Rada”, art. cit..

[35] Corrispondenza dal titolo “Il Presidente del Comitato del Corpo”, in “Il Monitore delle Guardie di Finanza”, n. 30 del 26 luglio 1893, pag. 2.

[36] Giuseppe Borgetti, nato ad Ivrea nel 1837, si laureò in Ingegneria nel 1859 a Torino. Nominato Sottotenente d’Artiglieria nello stesso anno, si distinse nella campagna del 1860, meritandosi una medaglia d’argento nell’assedio di Ancona ed una di bronzo sul Garigliano. Promosso Capitano nel 1862, nella campagna del 1866 ottenne una seconda medaglia d’argento. Raggiunto il grado di Colonnello nello stesso anno, resse la Direzione d’Artiglieria di Ancona e di Piacenza ed in seguito comandò il 21° Reggimento d’Artiglieria. Maggior Generale nel 1893, fu comandante dell’Artiglieria da Campagna in Roma. Collocato in posizione ausiliaria nel 1897, raggiunse nel 1901 il grado di Tenente Generale della riserva.

[37] Per ulteriori informazioni sul “Comitato” vgs. Luciano Luciani – Gerardo Severino, “Il Comando Generale della Guardia di Finanza nel primo secolo di attività”, Ente Editoriale per il Corpo della Guardia di Finanza – Roma, anno 2006.

[38] Vgs. “Mélanges de l’École française de Rome, Italie et Mediterranée”, Edizione l’École française de Rome – anno 1897, pag. 201.

[39] Laura Francescangeli, “Il Comitato Generale per solennizzare il XXV anniversario della liberazione di Roma e il suo archivio”, pagg. 201 e 240, in “Mélanges de l’École française de Rome, Italie et Mediterranée”, Edizione l’École française de Rome – anno 1997, Vol. 109. N. 1.

[40] Corrispondenza dal titolo “Notizie Varie – Italia”, in “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia”, n. 211 di sabato 7 settembre 1895, pag. 4760.

[41] Corrispondenza dal titolo “Per il generale De Rada”, in “Nuova antologia di lettere, scienze ed arti”, Vol. 202, Edizione della Nuova Antologia – anno 1905, pag. 366.

[42] Carlo Montù, op. cit., pag. 2718.

[43] Il pamphlet è attualmente consultabile presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

[44] Corrispondenza dal titolo “Notizie Varie – Italia”, in “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia”, n. 113, domenica 12 maggio 1901, pag. 2012.

[45] Corrispondenza dal titolo “Per il generale De Rada”, in “Nuova antologia di lettere, scienze ed arti”, Vol. 202, Edizione della Nuova Antologia – anno 1905, pag. 366.